Lo spazio tra le pagine

Ostinate stelle leopardiane

Il cielo di Leopardi si mostra, a distanza di due secoli, il nostro stesso cielo. Con le stesse meraviglie, le stesse domande, lo stesso stupore.
Spesso quand’io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando: A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?

Sono versi così conosciuti, così entrati a far parte (mi verrebbe da dire) del nostro patrimonio genetico, che non c’è quasi da specificare nulla. Una sequenza di parole, un canto. Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia è stato composto da Giacomo Leopardi (e qui leggibile in forma completa) poco meno di due secoli fa (tra il 1829 ed il 1830), ma rimane sempre attuale, bruciante.
Perché davvero brucianti e immortali (quindi, attualissime) sono le domande che si affacciano alla mente del pastore. E di noi tutti, pastori erranti nel cosmo.

Pastore errante sotto la Luna
“Pastore in notte di Luna”, generato dall’autore dell’articolo, mediante Copilot Designer di Microsoft 

A che tante facelle? A che servono queste stelle? Io aggiungerei, da astrofisico, a che serve che noi le studiamo? Le due domande, difatti, ammettono o non ammettono una medesima risposta. La domanda che aggiungo – per dirne dell’inossidabile attualità – è peraltro quella che anche l’amico Stefano Sandrelli affrontava proprio qualche giorno fa, su queste stesse pagine (diremmo, impropriamente).
Avviso ai naviganti: qui voliamo altissimo. Si può avere Leopardi più o meno in simpatia, si può nutrire perfino una motivata avversione per tutte quelle poesie imparate a memoria ai tempi della scuola: una avversione – sospetterei – forse più per il metodo che per la poesia in sé, più per l’ansia da prestazione e da possibile interrogazione, che per la bellezza o meno dei versi da far propri. Che poi, anche imparare a memoria una poesia – ma questo lo si scopre da adulti – è sempre una bella occupazione, è sempre un modo utile e costruttivo per passare il tempo. Frequentare una poesia, farci amicizia magari fino a poterla ripetere, è un modo intelligente per crescere, ancora.
Voliamo altissimo, perché dopo duecento anni siamo ancora qui, nel punto focale che ha individuato Leopardi. Perché è un punto gravitazionale stabile: eterno, per la razza umana. E la coniugazione tra scienza e poesia non potrebbe essere più infuocata, più viva, più totale. Proprio Leopardi scrisse anche, da giovane (appena quindicenne!) una poderosa Storia dell’astronomia dalla sua origine fino all’anno MDCCCXIII, in cui mostra una competenza e una erudizione assolutamente straordinaria, per l’età.
Una storia successivamente “completata” da una pop-star della scienza (per usare le parole di Fabio Pagan) come Margherita Hack, in un suggestivo e significativo passaggio di testimone tra un grande poeta e una nota scienziata e appassionata divulgatrice. Un passaggio che ci fa capire, tra l’altro, quanto siano ristretti e inutilmente delimitanti gli stessi termini poeta e scienziato. Leopardi che scrive una dottissima storia dell’astronomia è poeta o scienziato? O è semplicemente una persona innamorata delle domande ultime, che le avverte riverberare nel cosmo e proprio per questo, lo studia, lo racconta?
Il Leopardi trentenne che scrive della luna e della stelle e di un pastore errante non è altro dal ragazzo che tre lustri prima, aveva compilato l’eruditissima storia dell’astronomia. Semplicemente, è una persona che non ha acconsentito all’incoscienza di separare queste due tensioni, quella del capire il cosmo e quella del raccontarlo. Nè ha coltivato la presunzione moderna dell’oggettivare la conoscenza scientifica, raffreddandola da tutte le passioni e le pulsioni umane, in quel maldestro tentativo igienista/strutturalista di maneggiare soltanto roba congelata, in modo da evitare emozioni e contaminazioni. Camice, guanti e mascherina, si rischia di trattare la scienza come una infezione.
Invece il cosmo sempre ci contamina, ma felicemente. Studiarlo senza sporcarsi le mani non serve, non funziona, è inutile. Leopardi è entrato a buon diritto negli immortali della poesia e quindi ancora ce lo insegna, così anche in questo senso è preziosissimo. Più che un ponte, un wormhole tra poesia ed astrofisica, è l’esempio vissuto che neutralizza la necessità stessa della costruzione di un passaggio: perché non si dà necessità di connessione tra due realtà quando le due realtà – esaminate a energia sufficientemente elevata – sono una soltanto.
Si potrebbe parlare molto a lungo di questi pochi versi: per non perdersi e per non ricalcare piste già ben battute, è dunque necessario seguire un filo preciso. Scelgo pertanto di rilanciare proprio il tema riaperto da Stefano, sull’utilità dell’astronomia. Ammetto subito che lo faccio giocando facile, perché mi appoggio a Leopardi. Ai suoi versi.

Che vuol dire questa solitudine immensa? E io chi sono?...

Chi di noi non si è posto queste due domande, sotto l’ampiezza sottilmente inebriante di un cielo stellato? Quel cielo stellato che può confortare anche nelle situazioni più difficili? Chi non ha capito – confusamente quanto si vuole – che queste due domande sono una domanda sola? Che non si possono scorporare a piacimento?
Non si può qui dividere per meglio conoscere. Qui l’intero è, più che mai, oltre la somma algebrica della parti. Ecco (anche) a che serve l’astronomia. Se le domande non si possono separare, per rispondere alla domanda su me stesso poco mi serve rinchiudermi in un laboratorio, circondarmi di strumenti, misurarmi fin nei più intimi processi cerebrali e biologici e fisiologici. Stordirmi sotto un diluvio di dati che non rispondono alla mia domanda. Invece, se tolgo la corrente ai monitor, stacco i sensori, apro la porta ed esco sotto il cielo stellato, inizio subito a ricevere risposte riguardo alla domanda, io chi sono.
Forse non le posso tradurre in parole, quelle risposte. Non le capisco in modo tale che ne possa fare discorso. Forse le cose più importanti evadono dalla logica delle parole, forse il linguaggio – pensato come articolazione della logica stessa – è sempre riduttivo, di fronte alle cose grandi. E magari la poesia esiste per questo, usa le parole ma si sporge al di là di esse, le slarga sempre oltre il loro limite strutturale.
Come le stelle, così lontane, ci parlano di qualcosa di vicinissimo, di qualcosa che arde nel profondo di noi. Qualcosa che una certa civiltà riduzionistica e commerciale vorrebbe spegnere, perché poco funzionale a una economia di guerra e di acquisti. E loro eccole lì che invece resistono, ostinate. Lo fanno per noi. E proprio per questo, sono così belle.

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Scritto da

Marco Castellani Marco Castellani

Ricercatore presso l'Osservatorio Astronomico di Roma. Si interessa di popolazioni stellari ed è nel team scientifico del satellite GAIA di ESA. Divulgatore e scrittore per passione, gestisce da anni il blog divulgativo Sturdust.blog (già GruppoLocale.it) e coordina il progetto Altrascienza.it.

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