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Il cielo vuoto di Leopardi

Aggiornato il 21 Luglio 2021

… per via de’ loro cannocchiali, si avvedevano di qualche stella o pianeta (…) e subito lo ascrivevano tra le loro masserizie perché s’immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume alle signorie loro…Giacomo Leopardi. Dialogo di un folletto e di uno gnomo
giacomo_leopardi
Giacomo Leopardi – via commons

Nell’assurda presunzione umana, denunciata da Leopardi come una delle cause dell’infelicità, la convinzione che la natura abbia come fine l’umanità e tutto esista a esclusivo vantaggio degli uomini, financo le stelle, lanterne poste nel cielo per illuminare le gran faccende per le quali non basterebbero le ore di luce: e l’aggettivo suona ironico per connotare l’inconsistenza delle faccende umane. Due secoli dopo siamo ben consapevoli di come l’antropocentrismo, la convinzione che la natura sia finalizzata all’umanità sono davvero causa di infelicità e non solo filosofica, ma anche molto materiale: lo sfruttamento della terra senza rispetto ora gli si ritorce contro.
Nelle Operette morali, dialoghi sul modello platonico, fra cui quello citato, trovano parziale sistematicità gli innumerevoli pensieri, studi, ricerche presenti nello Zibaldone: non esiste un trattato sistematico del pensiero di Giacomo Leopardi, tuttavia ricomponibile in una visione organica che trova l’espressione più alta nei quarantuno Canti. Poche decine di poesie altissime nelle quali il pensiero, la sofferenza unica certezza, l’inappagabile desiderio di felicità e di senso trovano una armonia espressiva che, al di là della perfezione poetica, non lasciano indifferente il lettore di nessuna epoca.
Nella contemplazione della suprema bellezza della natura, del cielo e delle stelle, presenti nei versi con immagini inarrivabili, Leopardi coglie l’inganno operato dalla natura, il brutto // poter che, ascoso, a comun danno impera (A se stesso). Con Natura possiamo intendere dio, gli dei, personificati o no, l’ente creatore di tutto quanto esiste, l’autore della vita a cui però non ha dato senso, ma, quasi ad accrescere il dolore, l’illusione della giovinezza, a cui segue la desolata vecchiaia e la fredda morte (A Silvia).
Ora vogliamo toccare una scintilla della grandezza leopardiana in alcune immagini celesti, un cielo stupefacente abitato da una silenziosa Luna, dalle stelle fiammeggianti, da una luce nebulosa. Non indaghiamo il Leopardi studioso, ma ammiriamo il poeta silenzioso affascinato dal verecondo raggio // della cadente luna (Ultimo canto di Saffo); in contemplazione delle Vaghe stelle dell’Orsa (Le ricordanze) che non credeva avrebbe più rivisto dal paese natale; a interrogare sull’immensità dei deserti: Che fai tu, Luna, in ciel? Dimmi, che fai // silenziosa luna? (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia).
Immagini sensazioni atmosfere incantano il poeta e il lettore e la contemplazione trapassa nel ragionare. Proprio la bellezza sovrumana, la più alta esperienza data all’uomo, apre alle domande senza risposta che denunciano nella vita, razionalmente e non emotivamente, la sofferenza come cifra insuperabile dell’esistere, ben oltre la dolentissima esperienza personale. L’itinerario è percorso tutto nel Canto notturno dove ai versi 103/104 l’esperienza dell’infelicità ha una dimensione personale: qualche bene o contento // avrà fors’altri, a me la vita è male. In chiusura, solo quaranta versi più avanti, l’affermazione agghiacciante dell’impossibilità di felicità per chiunque: in qual forma, in quale // stato che sia, dentro covile o cuna, // è funesto a chi nasce il dì natale. Animali e uomini nascono in un giorno funesto, portatore di morte.
Proprio nella meraviglia del cielo l’insanabile contrasto tra l’urgenza di senso di cui l’uomo non può fare a meno e l’insensatezza di una vita che promette e non può mantenere, mentre all’illusione che finge accettabile l’inaccettabile sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra // della gelida morte (Ultimo canto di Saffo). A cui s’aggiunge l’indifferenza della natura: intatta Luna, tale // è lo stato mortale. // Ma tu mortal non sei, // e forse del mio dir poco ti cale (Canto notturno). Indifferenza largamente argomentata nel Dialogo della Natura e di un Islandese.
La Luna, non occorre neppure fare citazioni, è presenza frequente nella letteratura e nella pittura, soprattutto di epoche come il romanticismo, il tempo di Leopardi, anche se ne prende le distanze con qualche disprezzo. Nel nostro poeta la luna è presenza simbolica e la sua inafferrabile bellezza, la sua totale estraneità alle affannate venture umane la fanno oggetto d’amore o mia diletta luna (Alla Luna) anche se vista attraverso le lacrime.
Per Leopardi la conoscenza è per l’uomo irrinunciabile, fonte di consapevolezza e quindi di infelicità:
gli studi astronomici restano lontani dalla contemplazione della giovinetta immortal (Canto notturno). La Luna, libera da ogni indagine scientifica è misterioso simbolo di alterità rispetto a tutto quello che è esperienza umana e, proprio per questo, interlocutrice dell’uomo sull’essenza stessa della vita. Un’interlocutrice di una bellezza così attraente da indurre a rivolgerle le domande a cui l’uomo non può rinunciare, benché assolutamente consapevole che nella sua vergine indifferenza non risponderà: tragica conferma dell’insensatezza inaccettabile della vita: Ma perché dare al sole, //perché reggere in vita // chi poi di quella consolar convenga? (Canto notturno).
La contemplazione nell’esperienza dei mistici attinge al soprannaturale: per Leopardi diventa la tensione fra la certezza dell’assenza di quel senso a cui l’uomo non può rinunciare e l’urgenza insopprimibile di cercarlo. E quando miro in cielo arder le stelle; // dico fra me pensando: // A che tante facelle? // Che fa l’aria infinita, e quel profondo // infinito seren? Che vuol dir questa // solitudine immensa? Ed io chi sono? (Canto notturno). Non domande retoriche con risposta scontata, ma domande esistenziali con risposta impossibile.
La ripetizione dell’aggettivo infinito, così caro a Leopardi insofferente del limite, richiama la sublime poesia di parecchi anni precedente in cui l’infinito specchia l’eterno offrendo anche al poeta un’esperienza mistica, che non risolve i problemi, non risponde alle domande esistenziali, ma lascia una sensazione indescrivibile di dolcezza: così tra questa // immensità s’annega il pensier mio: // e
il naufragar m’è dolce in questo mare
(L’infinito). L’ossimoro è frequente in Leopardi, icona forse della insanabile contraddizione dell’esistenza seducente nemica.
È metafora consumata nella poesia universale, e perfino nel linguaggio comune, il tramonto della giornata, del sole, come l’avviarsi della vita al suo fine: il sole, anche per il poeta, è vita e calore, ma il tramonto della luna è figura della morte. C’è un momento alla fine della notte in cui l’assenza della Luna suggerisce morte. In quel momento non è possibile contemplazione di bellezza, neppure porre domande e nell’attimo successivo, quando il Sole inonderà gli eterei campi il poeta non potrà goderne. La natura ritroverà splendore, ma la vita poi che la bella // giovinezza sparì, non si colora // d’altra luce giammai […] ed alla notte // […] segno poser gli Dei la sepoltura (Il tramonto della Luna). Qualcuno ha supposto che proprio questa poesia, non l’ultima nella raccolta dei Canti come ce l’ha fatta pervenire l’amico Antonio Ranieri, sia stata dettata dal poeta morente, come è noto, appena trentanovenne.
Il libro dei Canti si chiude con una lunga inoppugnabile dimostrazione della fragilità della condizione dell’uomo, una fragilità che nega in cielo e in terra qualunque felicità quali il ciel tutto ignora, // non pur quest’orbe (La ginestra o il fiore del deserto): tuttavia un uomo capace di accettare con umiltà la sua condizione, senza illusioni di nuove felicità in vite ultraterrene, potrebbe organizzare un’esistenza solidale senza aggiungere infelicità alla condizione mortale. In sostanza, occorre abbracciare gli uomini con vero amor, porgendo // valida e pronta ed aspettando aita // negli alterni perigli e nelle angosce // della guerra comune (La ginestra): aiutarsi dunque e non combattersi.
In queste parole un affioramento singolare di frammenti cristiani: La ginestra è definita antiprovvidenzialista, con la denuncia delle religioni, e del cristianesimo in particolare, come grande inganno prodotto dalla vigliaccheria degli uomini incapaci di confessare il mal che ci fu dato in sorte, // e il basso strato e frale (La ginestra) della condizione umana.
In apertura della lunga poesia la citazione del versetto 19 del terzo capitolo del vangelo di Giovanni: Gli uomini hanno preferito il buio alla luce. Per l’evangelista il buio è la presunzione dell’uomo di badare a sé stesso, la luce è Cristo; per il poeta il buio sono le religioni e la luce la razionalità che illumina la verità della condizione umana altrettanto difficile da accettare.
La bellezza irrompe anche in quest’ultima poesia dominata dalla determinazione argomentativa, suggestiona e annichilisce: la contemplazione non può ignorare la conoscenza, occorre il coraggio di sapere per non essere ingannati dall’illusione. L’immensità delle stelle e le lontananze siderali sono qui la misura della piccolezza dell’uomo che con la presunzione di potenza accresce la propria infelicità. Lo sguardo si perde fra le galassie, e raggela quando ricade su questo oscuro // granel di sabbia, il qual di terra ha nome e ove l’uomo è nulla.

… e quando miro
quegli ancor più senz’alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,<br(>con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
o son ignote, o così paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri, allora, o prole
dell’uomo?

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