Per quanto il pianeta Venere sia ben visibile in cielo in diverse occasioni, non sono moltissime le poesie che gli sono state dedicate, nel tempo. Vi invito perciò a soffermarvi sulla seguente, leggendola con l’attenzione che merita.
Nel vasto spazio, tra stelle brillanti,
Sorge un pianeta di fascino e di incanti.
Venere, la dea dell’amore e della luce,
Un mondo che affascina, senza alcuna fuga.
Avvolto da una coltre di nuvole dorate,
Il suo splendore nel cielo si propaga.
Un’atmosfera avvolgente, misteriosa,
Che cela segreti di una bellezza laboriosa.
Luminosa come una gemma nel crepuscolo,
Venere danza nel firmamento, dolce e volubile.
La sua presenza risplende tra le costellazioni,
Accogliendo sogni d’amore e profonde emozioni.
Così come la dea che porta il suo nome,
Venere ci incanta con un fascino che consuma.
Risplendi, pianeta incantato e seducente,
Nel cielo notturno, un gioiello relucente.
Che il tuo riverbero ci avvolga nell’incanto,
E ci guidi verso amori veri e autentici,
Venere, simbolo di passione e desiderio,
Un’ispirazione celeste che ci dona respiro.
Sì, forse un po’ scolastica, ma tutto sommato fila. La poesia non ha un autore in senso proprio, ma è stata generata dal motore di intelligenza artificiale chatGPT, pochi minuti prima che scrivessi queste righe. Gli ho domandato, scrivimi una breve poesia sul pianeta Venere. E lui (lei?) l’ha fatto, anche con una certa proprietà. Il rilievo immediato che mi sento di fare è che l’idea di breve poesia che ha chatGPT è evidentemente diversa da quella che ho io.
Per la cronaca, vista la cordiale disponibilità del poeta (o poetessa, a seconda di come la vogliate vedere), mi sono fatto coraggio e ho domandato un’altra breve poesia sul pianeta Venere, ottenendo in effetti una diversa composizione, anche se – devo dire – stilisticamente non molto diversa (ve la risparmio).
Preso ormai dall’estro di interloquire con codeste cosiddette intelligenze artificiali, sperando anche di rintracciare sottili differenze stilistiche, mi sono lanciato a formulare al nuovissimo Bard di Google, la stessa identica richiesta. La poesia che mi ha generato è la seguente
Venere, la stella del mattino,
Un pianeta coperto di nuvole e smog.
La sua atmosfera è densa e tossica,
E la sua superficie è rovente.
Un pianeta inospitale per la vita,
Ma un mondo affascinante da studiare.
Un pianeta che ci ricorda
La fragilità del nostro pianeta.
Se posso dirlo, mi è parsa lievemente depressiva, con questa impietosa messa in evidenza della totale invivibilità di Venere (beninteso, tutto vero). Si riscatta solo un poco chiamandolo comunque affascinante da studiare. Però la ripetizione di pianeta nell’ultima strofa non soddisfa appieno il mio senso poetico. Va comunque detto che almeno Bard ha preso sul serio la mia richiesta che la poesia fosse breve.
Dal punto di vista formale, possiamo dire che i nostri due autori hanno fatto un lavoro accettabile. Certo non saranno poesie da ricordare nei secoli, questo va detto. Siamo infatti di fronte a dei modesti compitini che – pur in un quadro di correttezza formale e proprietà di contenuto (non ho rilevato gravi scivoloni scientifici) – difettano vistosamente della scintilla creativa propria dei poeti in carne e ossa. Per questo trovo l’esperimento particolarmente istruttivo: analizzando delle composizioni automatiche, vediamo meglio – per sottrazione – cosa è propriamente l’umano. Quando alla tecnica poetica è paradossalmente sottratta la componente umana, capiamo meglio dove abita il fascino irriducibile della vera poesia.
Vogliamo dirla tutta? Proprio la tranquilla correttezza degli elaborati, ne sancisce l’estrema inutilità. Queste composizioni possono stare in piedi, sì, ma presentano un grave problema: non graffiano. Cioè, non contengono nessun momento di sorpresa, nessun accostamento particolare tra parole che attivi la meraviglia di chi legge. Non hanno sapore. Sono versi esageratamente tranquilli, dunque si muovono nell’ottica dello status quo, nel ruminante ossequio all’ordine esistente, senza quel sano fermento rivoluzionario che è proprio della vera poesia, della vera arte. Un minuscolo frammento di Saffo mette più in crisi le nostre strutture di pensiero e di società rispetto a tutti i versi che possiamo far generare a chatGPT e a Bard.
L’arte è scomoda. Se non ti porta fuori dalla tua zona di confort, se non ti suggerisce quella specifica bellezza che continuamente perdi di vista, se non ti fa baluginare un fulgore inedito che brilla dietro lo schermo opaco delle tue abitudini, è inutile, non è arte. Per quanto l’intelligenza artificiale possa mostrare aspetti di creatività, l’arte sintetica – almeno per il momento – non è vera arte, perché non produce questo bagliore, questo momentaneo salto della ragione (per dirla con i Pink Floyd) per cui per un attimo perdi gli appigli necessari al tuo moto di piccolo cabotaggio, e vieni prepotentemente lanciato nella smisurata vastità dell’oceano.
Federico Faggin – fisico, inventore, imprenditore, considerato il creatore del microprocessore – sostiene nel suo recente libro Irriducibile, che a tutt’oggi, l’intelligenza artificiale è ben lontana dal superare non solo l’intelligenza creativa umana, ma anche quella del più semplice organismo unicellulare, come il paramecio. Senza pretendere di chiudere in fretta una questione che invece si amplia giorno dopo giorno (ormai sembra non si parli d’altro), questi semplicissimi esperimenti sembrano dargli ragione.
Ma come qui, ragionando sulle “poesie” generate dall’intelligenza artificiale, arriviamo a comprendere meglio cosa siano le vere poesie, così possiamo leggere tutta l’enfasi che viene data al tema, come un’occasione propizia per riscoprire la nostra specificità di essere donne e uomini su questo pianeta, e anche tutto l’irriducibile mistero che questo comporta. Sempre Faggin afferma – in un incontro con il filosofo e (appunto) poeta Marco Guzzi che ho avuto il privilegio di moderare un paio di mesi fa – che l’intelligenza artificiale oggi ci sta incalzando e ci sta veramente muovendo verso la nostra libertà.
Riconoscere in che misura l’arte sia specifica dell’umano, ci costringe a chiederci – di nuovo e con più passione – cosa sia l’umano. E a meravigliarci, con rinnovato candore, della sua irriducibile, misteriosa, bellissima fiamma creativa, non riproducibile (secondo Faggin, né ora né mai) da alcuna soluzione algoritmica.
L’arte è anche tecnica, certo, ma in ultima analisi contiene sempre quel centro pulsante di felice evasione dall’ordine costituito (di pensieri, di strutture, di convenzioni) che è irriducibile propulsore di cambiamenti e di progresso. Nessuna macchina si sognerà mai di evadere da nulla. Nessuna struttura elettromeccanica esprimerà quel guizzo di coscienza che ci fa riconoscere veramente creativi: punto di reale specificità in questo vasto, vastissimo spazio.
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