Aggiornato il 23 Settembre 2021
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Oggi il nostro ospite è Carmelo Presicce. Carmelo parte con una laurea in ingegneria elettronica con la specialistica in informatica. Poi fa mille cose: è fondatore del coderdojo di Bologna, docente in corsi UNIBO (T.I.C. Nuove Tecnologie per l’Apprendimento, Laboratorio Tecnologie) lavora anche direttamente con i ragazzi non solo al coderdojo ma anche con le scuole. Poi cambio di panorama ma non di interessi. Carmelo continua a occuparsi di coding e di creatività ma nella bottega del papà di Scratch, Mitch Resnick, Lego Papert Professor al MIT Media Lab. Diciamo una certa eredità sulle spalle. Al MIT Carmelo consegue il Master in Media Arts and Sciences, con la tesi Explorations in Computational Tinkering sempre al Lifelong Kindergarten Group. Adesso è dottorando e ricercatore al MIT Media Lab.
Per prepararmi alla tua intervista ho fatto un po’ di ricerche e oltre a tutte le cose serie che ho appena detto ho letto sul tuo curriculum: “innata capacità di ascolto, empatia (e simpatia!)” quindi sappi che mi aspetto molto da questa intervista. A parte gli scherzi perché non ci racconti a cosa stai lavorando ora?
Quella nota sul mio curriculum mette sempre un po’ in imbarazzo anche se secondo me è una cosa che ci potrebbe stare bene in un curricolo e comunque diciamo che è più un’aspirazione e un desiderio che un dato di fatto! Riguardo al mio lavoro la mutazione è continua anche se impercettibile e graduale. Sto continuando a lavorare nel Lifelong Kindergarten Group, al MIT Media Lab, guidato da Mitch Resnick: ci occupiamo di apprendimento creativo e di come possiamo sviluppare tecnologie ed esperienze che rendano le tecnologie uno strumento per creare, un’opportunità di apprendimento giocoso, tra pari secondo tutti i principi che ci stanno molto a cuore. La cosa per me interessante è che è una ricerca guidata dai valori e da una visione educativa molto precisa che posso dire non è solo teorizzata ma profondamente messa in pratica. Sto continuando ad assorbire molte cose interessanti attraverso le esperienze che faccio. Come dicevi la mia pratica in ambito educativo è partita con i bambini quando ho fondato il Coder Dojo Bologna e ho cominciato a lavorare direttamente sul campo. L’esperienza in università nel dipartimento di Scienza dell’Educazione è stata una conseguenza del fatto che quello che avevo imparato sul campo lo potevo condividere con studentesse e studenti.
La mia formazione continua perché una fortuna enorme mi ha consentito di conoscere Mitch e il suo lavoro e soprattutto per Mitch è stata una grossa fortuna conoscere me [scherza, ridendo ndr], e quando ci siamo incontrati mi ha chiesto di venire qui al MIT. Partendo dal lavoro con i bambini mi sto concentrando sempre di più sul lavoro con gli insegnanti e con gli educatori. Questo spostamento è avvenuto in modo graduale e comunque continuo a lavorare anche direttamente con i bambini perché la loro energia è travolgente. Un’altra transizione che il mio lavoro sta vivendo è quello tra il lavoro in contesti e ambienti fisici rispetto ad ambienti virtuali. Questa transizione non è avvenuta a causa della pandemia ma sono almeno due anni che lavoriamo chiedendoci come possiamo portare il modello dell’apprendimento creativo in un contesto online e in un contesto globale, multiculturale, multilingua. Mi sto occupando molto di questo attraverso progetti come Learning Creative Learning (LCL) e WeScratch. LCL è una comunità online di insegnanti, educatori, tinkerers che imparano i principi dell’apprendimento creativo mentre WeScratch è il nome che diamo ai laboratori online per adulti, un tentativo di fare dei coder dojo online.
Mi colpisce molto che già da tempo stavate provando a portare le vostre attività online perché effettivamente per la maggior parte di noi che non si erano posti questi problema o che se lo erano posto solo parzialmente il covid è stato una specie di risveglio: improvvisamente chiudendo le attività in presenza abbiamo avuto un azzeramento dell’impatto delle nostre attività anche se man mano poi ci siamo attrezzati. Quello che mi è chiaro è che con le attività online un po’ si perde e un po’ si guadagna. Per me forse è così tanto grave la perdita, che forse non mi sono mai soffermata abbastanza a ponderare i vantaggi. Forse è difficile fare un così grande investimento di progettazione e messa in opera se non si percepisce bene il vantaggio che si può ottenere. Perché non ci racconti il vantaggio che voi avete visto in questa transizione, al di là della contingenza del covid?
C’è una premessa da fare, assolutamente noi non vogliamo portare tutto online; crediamo da tempo e crediamo ancora di più oggi alla luce di quello che è successo durante questa emergenza che niente può sostituire quel tipo di interazione e relazione che si crea quando si è insieme fisicamente nella stessa stanza. Detto questo, parlo personalmente ma so di condividere il sentimento di tutto il gruppo, costruire un’attività online nasce quasi sempre dalla frustrazione rispetto a quello che è già online. Il 2012 per esempio è stato l’anno dei MOOC, tutti proponevano questi massive open online course composti da video lezioni in cui gli adulti o i bambini che stanno imparando si siedono e si sorbiscono un video più o meno lungo al termine del quale c’è un test. Ecco, la nostra reazione ad un prodotto del genere è constatare che questo è un modello trasmissivo, antiquato, inefficiente, poco divertente e che vogliamo cambiare e quindi la domanda non è tanto se andare online o no ma è: tenendo conto dei vincoli, dei problemi e delle possibilità dell’online come possiamo noi portare il nostro modo di vedere l’apprendimento in un ambiente nuovo? E come possiamo attraverso il nostro lavoro anche dare un esempio di una diversa possibilità di azione? Direi che la nostra ricerca è action based research nel senso che noi facciamo una azione, vediamo come va e cerchiamo di condividere con la comunità comunicando cosa abbiamo fatto, quello che ha funzionato e in che direzione continueremo ad andare. E’ anche una design based research perché progettiamo l’attività la mettiamo in opera, impariamo qualcosa, la comunichiamo ad una comunità e poi iteriamo il processo.
LCL quindi si potrebbe vedere anche come un meta-qualcosa (non so se è giusto chiamarlo corso o comunità) perché al di là dei valori e delle idee che esprime può rappresentare un modello di come costruire una esperienza di apprendimento. Io non ho mai seguito in maniera completa LCL per vicissitudini personali ma sicuramente è un “corso/comunità” che si segue bene anche solo “spizzicando” senza necessariamente avere un quadro completo. Ci si può inserire da outsider come invece fare una esperienza comunitaria/identificativa. Al di là del contenuto specifico che potrebbe essere Scratch e una declinazione dell’apprendimento creativo può essere interessante per chiunque si occupi di educazione. Anche il corso dell’Exploratorium sulla piattaforma Coursera anche se in modo meno estremo, poteva essere interpretato come un meta corso, perché si percepiva un forte impianto di valori, una tensione all’azione che si traduceva anche nel modo in cui i contenuti potevano essere fruiti. Anche se i contenuti erano asincroni c’era modo di chiacchierare con loro e confrontarsi tra pari e soprattutto una grande chiamata all’azione. Diciamo che la struttura era più tradizionale ma l’intenzione all’azione era evidente.
Hai detto un sacco di cose interessanti e che mi fanno piacere ad esempio che il corso si può seguire a “spizzichi”. Questa è stata una scelta di design molto importante che si è tradotta in molte delle micro scelte: dal modo in cui scriviamo le mail, al modo in cui sono organizzati i link sulla pagina, al modo in cui tutta l’esperienza è costruita consente di poter “spizzicare” questa esperienza educativa.
La domanda di design che in questo caso ci siamo posti è: come possiamo rendere l’esperienza in questo caso online fruibile in modo discontinuo? Dopo aver disegnato l’attività facciamo una lista delle scelte prese e poi andiamo a vedere come è stata utilizzata l’esperienza, se effettivamente chi ha partecipato ha spizzicato o come si è comportato. Il fatto che tu lo hai notato mi fa piacere perché significa che stiamo andando nella direzione giusta perché tutti noi, ma soprattutto gli insegnanti, in questo periodo sono impegnatissimi, quindi non possiamo pretendere un impegno al 100%. Spesso chi progetta una esperienza di apprendimento fa questo errore, ovvero pensare di poter assegnare dei compiti e che i ragazzi o i docenti li eseguiranno come se fosse l’unica cosa della loro vita. Veniamo al discorso del “meta”; LCL è un corso sull’apprendimento creativo ma è anche progettato secondo i principi dell’apprendimento creativo. Questa dimensione di struttura e contenuto, mezzo e messaggio è sempre molto evidente nel nostro lavoro e questo non è vero solo online ma anche quando lavoriamo in presenza. Il modo in cui ci poniamo è importante quanto quello che insegniamo. Riguardo al termine “corso” noi lo chiamiamo corso-comunità proprio perché crediamo che anche chi partecipi anche in modo discontinuo possa entrare in contatto e continuare ad imparare insieme a questo gruppo di persone attraverso il confronto ed è per questo che organizziamo tante occasioni affinché questo scambio avvenga.
Questa parte della terminologia mi sembra molto importante così come mi sembra importante il vostro approccio al linguaggio e la cura con cui si scelgono i termini dentro LCL. Anche avendo frequentato poco mi è sembrato che il linguaggio sia utilizzato deliberatamente come strumento per costruire la comunità, è così?
Mi fa piacere che anche questo aspetto sia visibile perché è vero che abbiamo un’attenzione quasi morbosa al linguaggio, perché per noi è veramente fondamentale farsi capire. Penso questo sia vero per chiunque lavori in un contesto educativo e forse ancora più critico quando si utilizzano tecnologie.
In ambienti accademici diversi dal gruppo in cui mi trovo invece il linguaggio può essere utilizzato come barriera ovvero se tu non capisci questa parola non puoi capire questa idea. Noi usiamo l’approccio opposto ovvero anche quando ci sarebbe una parola più adatta dal punto di vista tecnico o filosofico ma è una parola magari difficile scegliamo di usarne un’altra più accessibile e cerchiamo di concentrarci sul significato e sull’idea che vogliamo trasmettere. Questo è fondamentale sempre ma ancora una volta se si parla di tecnologie e quindi tutta una serie di termini poco conosciuti o “strani” dobbiamo chiederci che effetto fanno in primo luogo sui bambini. Magari ci sono bambini che sono attirati da questi nomi esotici (algoritmo, coding) perché suona “figo” rispetto alla maggior parte di altri bambini e bambine per cui un linguaggio troppo tecnico può essere repulsivo e farli scoraggiare dall’intraprendere l’attività.
Noi, occupandoci di astrofisica abbiamo lo stesso problema, l’astrofisica è un po’ la scienza del WOW perché abbiamo queste meravigliose immagini che possono essere spiegate e che sono perfette; soprattutto per chi si occupa di comunicazione della scienza sono ovviamente una piattaforma narrativa ideale. Chiaramente in ambito educativo bisogna stare molto attenti perché effettivamente l’immaginario astrofisico può anche rappresentare una barriera psicologica per tutti i bambini che non hanno una familiarità con le STEM per cui questo mondo appare sì meraviglioso ma anche troppo distante, bellissimo ma non “mio”. Questo uso del linguaggio mi sembra veramente appropriato e responsabile per aggregare comunità ma la scelta non è usuale: negli ambienti accademici il linguaggio spesso è barriera.
Negli ultimi anni finalmente si è aperto un dibattito su come gli aspetti socio-economici influiscano anche in questa capacità di accedere alla bellezza, sulla possibilità di allenare gli occhi per vedere e riconoscere la bellezza che ci circonda. Quindi noi come educatori e la scuola in primo luogo abbiamo una grande responsabilità per creare le condizioni ed una “esposizione alla bellezza”. Nello stesso tempo ci dobbiamo rendere conto che per un occhio “non allenato” la cosa non è banale ed è necessario trovare le strategie e le modalità più giuste. Un atteggiamento che vedo molto spesso magari da parte di informatici o matematici, ovvero persone con gli occhi molto allenati ad un certo tipo di bellezza e che non si capacitano che un bambino non riesca ad entusiasmarsi davanti ad una bella idea, davanti ad un sofisticato algoritmo quando magari quel bambino in quel momento ha solo voglia di giocare fuori e comunque non è “allenato” a vedere quel genere di bellezza.
Adesso ti chiedo del computational tinkering (non computational thinking). Questo è un argomento veramente di nicchia e se ne parla forse poco ma secondo me è un’idea veramente bella e poi è un po’ il cuore della tua tesi. Ci racconti qualcosa?
La prima volta che ho sentito parlare di computational tinkering era dalle parole di Karen Wilkinson, la direttrice del Tinkering Studio al San Francisco Exploratorium. Stavamo facendo una chiacchierata al MIT ormai quasi 5 anni fa, lei ha tirato fuori il computational tinkering e io che ancora non sapevo cosa fosse già ero certo che ci avrei voluto lavorare. Il titolo della mia tesi è “Exploration in computational tinkering” perchè non lo sappiamo neanche noi cosa è esattamente questo computational tinkering. Nel tinkering, nel costruzionismo è molto pericoloso definire a priori, prima ancora di sperimentare. Spesso c’è questo problema che prima si da la definizione e poi si vede l’esempio. Quando si fa ricerca la definizione non esiste a priori ma semmai emerge da lavoro. Anche all’interno del nostro gruppo di ricerca del MIT e gli altri ricercatori con cui lavoriamo, ci sono idee diverse su cosa sia il computational tinkering. Quello che ho fatto io è prendere una delle due prospettive che mi andava di esplorare e cominciare a lavorarci sopra. Per me computational tinkering significa almeno 2 cose: la prima che è quella che ho seguito nella tesi e consiste nell’aumentare alcune esperienze di tinkering fisico dandogli una dimensione computazionale e farsi la domanda: cosa succede se introduciamo questo materiale computazionale? cosa succede se invece di usare un classico motorino da modellismo utilizzo un motorino programmabile? E poi successivamente la domanda forse più importante: quali nuove possibilità offre questa estensione tecnologica e invece anche quali strade magari ci chiude? Quindi l’idea che si sviluppa nella mia tesi attraverso tre o quattro casi di studio è cercare di capire come il materiale computazionale modifica il design dell’esperienza di tinkering (fisico). Un altro aspetto interessante che però ancora non ho approfondito è quel tinkering che avviene in ambiente squisitamente digitale; Scratch e il suo design a blocchi è altamente tinkerabile nel senso che facilmente posso spostare blocchi: attaccarli, staccarli, vedere quello che succede. Questo atteggiamento è tinkering per il modo in cui si lavora ma è computazionale perché sono in ambiente digitale. Questo aspetto per me è veramente molto interessante anche se non sono riuscito ancora ad approfondire.
Quindi in questa seconda descrizione del computational tinkering implicitamente dichiari che possa esistere un conding che non abbia alla base un atteggiamento di tinkering?
Questo purtroppo più che un’ipotesi è una constatazione anzi è uno dei problemi principali su cui adesso il nostro gruppo sta lavorando per cercare di capire a distanza di dieci anni da quando è uscito Scratch cosa è successo. Le intenzioni di chi ha progettato Scratch non sempre trovano riscontro nel modo in cui Scratch è utilizzato. Questa è una verità che nel design è praticamente universale: tu progetti qualcosa poi non sai mai come verrà usato. Puoi progettare e devi progettare tenendo in conto che il design rende più semplice determinati usi rispetto ad altri e questa è la responsabilità del designer ma a un certo punto quando l’oggetto va fuori tu puoi soltanto da una parte sperare e poi lavorare per fare in modo che venga usato nel modo in cui ti piacerebbe venisse utilizzato. In un articolo recente Mitch Resnick e Natalie Rusk (disponibile qui in italiano) spiegano come le aspettative su Scratch e sul coding possono essere disattese quando Scratch viene utilizzato in una maniera troppo didattica, quando citando l’esempio dell’articolo, tutti i bambini copiano lo stesso progetto, oppure quando si parte con le definizioni di hardware, software e algoritmo prima ancora che i ragazzi possano provare ad utilizzare Scratch. La sfida che abbiamo di fronte è una sfida pedagogica e didattica e non tanto sullo strumento ma sull’approccio. E’ una chiamata a chiunque lavori nel campo educativo, da chi si occupa di politiche della ricerca, agli insegnanti, agli educatori, chi facilita la formazione dei docenti ed è un invito a cercare di pensare all’apprendimento in nuovi modi perché i modi tradizionali rischiano di non mantenere la promessa del coding.
Questo spazio è pensato per chi si occupa di didattica delle STEM e vorrebbe esplorare l’innovazione nella didattica nelle STEM e nell’astrofisica quindi potrebbe essere interessante capire cosa significa per te innovazione nella didattica ovvero come si ripensa l’educazione e il processo di apprendimento in chiave innovativa? Qual è il passaggio che cambia la prospettiva?
Abbiamo effettivamente parlato di apprendimento creativo dando per scontato cosa sia ed è invece giusto esplicitarlo soprattutto se non si è mai sentito parlare delle 4 P che è un modo semplice per raccontare un qualcosa di veramente ambizioso. Partiamo dal presupposto che l’innovazione è sicuramente pedagogica, del modo in cui si fa didattica. Noi ci impegniamo ad innovare nel campo dell’educazione cercando di tenere in conto queste quattro P in inglese: Project (progetti), Peers (Pari), Passion (Passione) and Play (gioco) che ci fanno un po’ da guida nel creare esperienze per bambini in cui loro creano, scoprono e fanno. Questo può essere applicato anche all’astrofisica ad esempio, che è un ambito che mi appassiona a livello personale anche se non sono competente. Faccio riferimento ad esempio al lavoro del Movimento di Cooperazione Educativa con il gruppo che lavora sulla pedagogia del cielo; a me il fatto che i bambini osservino la luna ogni giorno vedendo cosa sta succedendo in cielo mi piace molto perché è un progetto a tutti gli effetti, dove i ragazzi sono al centro perché tutto parte proprio dalle loro osservazioni. Anche voi all’INAF state facendo un lavoro enorme per mettere al centro il bambino e il suo lavoro di scoperta. Poi c’è la P di passione: far lavorare bambini e adulti a cose che interessano, e quindi qui è importante costruire più ponti possibili. Alle volte parliamo di “pareti larghe” che è un’altra metafora che significa trovare una attività per cui non solo 2 o 3 bambini di una classe si appassionano ma tutti.
La P di pari rovescia il modo di apprendere; certamente posso guardarmi un video da solo e imparare, ma questa strategia funziona in minima parte; la maggior parte dell’apprendimento avviene attraverso l’interazione sociale quindi ci domandiamo: come fare a rendere una esperienza di apprendimento il più possibile sociale e collettiva.
Alla fine una cosa veramente importante il gioco (la P di play). Qui bisogna capirci sul significato che diamo alla parola gioco. Sento tanto parlare di gamification, punti, badge competizione. Per me gioco è creare un ambiente accogliente inclusivo, non giudicante dove bambini e adulti si possano sentire liberi di sperimentare, di provare e di sbagliare. Quindi un ambiente giocoso.
Queste 4 P che sembrano forse un po’ astratte vengono dall’esperienza concreta e iniziare a pensare attraverso questo paradigma o altri, ce ne sono vari con impostazioni simili, ci porterà sul lungo termine ad innovare profondamente la didattica e a rendere l’apprendimento più significativo per tutti, sia per chi impara che per chi insegna.
Il termine italiano in effetti è uno gioco e quindi è ancora più necessario distinguere tra gioco (play) e gioco (game) ma anche dentro la comunità di ricerca italiana sul gioco (Game Science Research Center) c’è molto dibattito e diversificazione perché si va da attività abbastanza codificate e chiuse (come ad esempio un gioco da tavolo) a scenari molto diversi (e.g. gioco di ruolo). Per quanto riguarda il discorso che hai fatto prima io devo riportare una certa inerzia in Italia che non riguarda tanto l’utilizzo di tecnologia nella scuola perché man mano tutti hanno cercato di utilizzare tutto quello che sta diventando disponibile, quanto a ripensare la didattica grazie anche a questi nuovi strumenti. Per assurdo nella mia esperienza ho trovato una via più libera e fruttuosa lavorando con maestre di scuola dell’infanzia e primaria poco tecnologiche ma molto “impiastrone” nel senso che non avevano paura di impiegare 3 ore per lavorare con carta colla ed esplorare materiali piuttosto che con docenti che magari volevano utilizzare le tecnologie ma che di fondo non erano disposti a modificare il proprio stile di insegnamento. Alla fine è più semplice insegnare lo strumento tecnologico quando c’è già la disponibilità a tempi dilatati e una certa attenzione a centrare il lavoro sul bambino piuttosto che lavorare con docenti più tecnologici per cui però questa apertura educativa non c’è…
I problemi alla fine sono gli stessi, e sono problemi globali almeno direi in tutto il mondo occidentale che si sta confrontando con l’uso della tecnologia a scuola. La resistenza che descrivi è naturale e bisogna capirla, in particolare in contesti di crisi sanitaria e sociale in cui docenti che magari in vita loro non avevano mai fatto una videochiamata si sono trovati da un giorno all’altro ad impostare tutta l’azione didattica completamente online con pochissima guida, milioni di input e proposte che rendevano ancora più difficile capire cosa potesse funzionare e cosa no. A questo punto è normale un sentimento di confusione. A ciò si può affiancare un sentimento in cui si dichiara che la tecnologia “non fa per me”. Ora c’è da capire in primo luogo da dove viene questo sentimento di estraneità. Per me questo è un problema di accesso e di percezione dell’ambiente tecnologico come un qualcosa di molto complesso, abitato da persone-genio, iper analitici, tipicamente maschi, quindi tutta una serie di stereotipi che allontanano le persone che non corrispondono allo stereotipo dalla curiosità di poter provare. C’è un vero e proprio scollamento che va colmato per far si che si percepisca che la tecnologia è veramente per tutti, che la tecnologia non è solo un foglio pieno di numeri ma che attraverso la tecnologia posso esprimermi, creare un biglietto di auguri per mia mamma, inventare una storia.
Mitch come anche il suo mentore Seymour Papert parlano anche di questa divisione tra tecnoscettici e tecnoentusiasti. Spesso le persone di autocategorizzano in una delle due ovvero di chi per partito preso ama la tecnologia e vuole provare tutto e di chi invece si sente incapace e non la vuole nemmeno vedere. E in queste categorie cadono anche gli insegnanti. Può accadere che un insegnante tecnoentusiasta non si domandi troppo cosa stanno creando i ragazzi, come sta funzionando il loro apprendimento perché è l’uso della tecnologia di per se che comunque da valore all’esperienza. La dimensione tecnoscetticismo/tecnoentusiasmo che è una variabile ma poi c’è un allineamento sui valori educativi: io direi che questi due assi sono ortogonali e che si come dici tu forse alle volte è più facile lavorare con persone con cui c’è già un allineamento sui valori educativi anche se magari tecnoscettici. In questo ecosistema dove la tecnologia sta entrando a scuola io vedo anche il problema degli informatici o dei tecnici che entrano a scuola con i loro bias, e molto spesso una competenza tecnica che non ha un corrispettivo pedagogico. Anche lì si fanno dei grossi danni perché si può veramente allontanare i bambini dall’informatica. Se ad esempio propongo come progetto un gioco sparatutto ma magari ho una classe dove a parte due o tre bambini gamer il resto della classe non ha interesse è chiaro che si stanno facendo danni. Stessa cosa se si imposta la lezione su concetti molto lontani dai bambini anche se magari interessanti. La promessa della tecnologia come fattore di espressione liberante viene persa. Quindi c’è da capire come fare in modo di creare un ambiente più interessante, intrigante e favorevole per i docenti e nello stesso tempo, attraverso un percorso continuo di confronto e scambio, fornire delle basi pedagogiche agli informatici che a livello disciplinare sono eccellenti ma non hanno idea dell’azione educativa.
Questi sono suggerimenti assolutamente da tenere in conto. Nella mia esperienza per quanto riguarda il coinvolgimento delle docenti è importante farli sentire tranquilli e modulare l’ambiente e le esperienze in modo che si “sciolgano”: quello che ad un certo punto avviene nei workshop è una sorta di disgelo e l’atmosfera comincia ad assomigliare più a una chiacchierata tra amici, a un tè tra signore piuttosto che a un corso. Quando questo avviene so che le insegnanti possono costruire qualsiasi cosa. Io ho sempre avuto timore che questo disgelo sia molto più difficile se non impossibile online. Di recente in realtà con un corso forzatamente online a causa del covid ho sperimentato che forse questo timore è un po’ infondato.
Secondo me , e questo è un po’ il cuore della mia ricerca, è veramente possibile che questo “disgelo” avvenga anche online e che queste difficoltà che l’ambiente online intrinsecamente presenta possano essere superate. In qualsiasi ambiente di può far alzare la temperatura ed è su questo che bisogna lavorare. Un altro problema del lavorare a distanza è la paura di perdere il controllo. Dal momento che l’ambiente online è meno conosciuto c’è un certo timore di non saper gestire le situazioni che si possono presentare e quindi ci si irrigidisce. Ad esempio di fronte alla paura di non riuscire a gestire una call con i ragazzi io chiedo sempre ai docenti di provare a farli entrare con i microfoni aperti, così magari si salutano e possono interagire un po’ man mano che si collegano ad esempio. Invitiamoli ad accendere la webcam, se vogliono, se possono , senza forzare, e se anche io da docente sto in una situazione rilassata e serena questo li invita a partecipare attivamente. Tutta l’educazione si basa sulla fiducia che i ragazzi possano stare insieme e imparare; è necessario anche online chiedere che si rinnovi la fiducia nei ragazzi e nelle loro possibilità. Creare un ambiente aperto, sereno e piacevole è veramente fondamentale per l’apprendimento e non è solo un accessorio.
Chiudiamo questa bellissima intervista con 3 spunti che Carmelo ci consiglia per continuare a viaggiare alla ricerca dell’apprendimento creativo. Grazie!
The Art of Gathering: How We Meet and Why It Matters: un libro in cui Priya Parker propone un approccio all’incontro incentrato sull’uomo che aiuterà tutti a creare esperienze significative e memorabili, grandi e piccole, per il lavoro e per il gioco. Il recente articolo di Mitch Resnick e Natalie Rusk.
E per finire con le 4P sia il sito di LCL che il libro Lifelong Kindergarten Cultivating Creativity through Projects, Passion, Peers, and Play in italiano per la Erickson Come i bambini.
Un processo logico e creativo efficace per la scuola, in quanto utilizza metodi e strategie specifiche della tecnologia per la soluzione di un problema. Consente agli studenti e bambini di sviluppare la creatività.
Mi ha colpito il concetto di sperimentazione rispetto al computational tinkering che secondo l’autore deve partire dal presupposto di non avere una definizione a priori e rappresenta quindi una sfida, continua sperimentazione, a mettersi in gioco andando oltre gli schemi tradizionali. Il coding ne rappresenta una soprattutto sulla base delle 4P.