Aggiornato il 22 Settembre 2023
Accadde tanti anni fa, mentre seguivo il corso di Meccanica Statistica, a Fisica, a Pisa. Un corso superato il quale mi sarei potuto fregiare del titolo di UDQCHPMSCM, ovvero Uno Di Quelli Che Ha Passato Meccanica Statistica Col Menotti. Almeno questo era quello che si leggeva nella Guida Michelin per un corretto uso del corso di Fisica, redatta dagli studenti degli anni precedenti e ciclostilata in proprio.
Il Menotti è il professor Pietro Menotti, a cui sarò per sempre grato: è stato uno delle conoscenze più belle della mia carriera universitaria. Con lui ho fatto il mio ingresso nella Meccanica Quantistica, ho approfondito il senso della Meccanica Statistica classica e quantistica, e – infine – ho composto una delle 4 tesine ancillari alla mia tesi principale di astrofisica. Argomento: la teoria della misura in Meccanica Quantistica. Uno dei mostri della MQ. Non siamo mai andati oltre un rapporto strettamente accademico, ma la sua figura è stata per me illuminante: grazie di cuore, prof.!
Quel giorno di tanti anni fa, il Menotti scrisse una T sulla lavagna, poi sollevò il gessetto. Si voltò e con lo sguardo a terra, perché è sempre stato timido, terminò la lezione dicendo: Bene, questo tempo T può essere misurato in secondi, in anni o in miliardi di anni: è del tutto ininfluente. È sempre uguale a se stesso.
Quel periodo di tempo era espresso da un numero spaventoso: 10 elevato a una quantità che era 10 elevato alla 23. In modo più sintetico, 10 elevato più o meno al numero di Avogadro, per chi ricorda cosa sia. Per capire meglio il valore di T, proviamo a confrontarlo con l’età dell’universo.
Posto che l’universo abbia 13 miliardi di anni, la sua età in secondi è circa 10 elevato alla 17. Confrontare l’età dell’universo con il numero citato dal Menotti, significa in sostanza confrontare 17 con centomila miliardi di miliardi.
Se mi avete seguito fin qui, capite bene l’enormità racchiusa in quella T: equivale a circa seimila miliardi di miliardi di universi uno dopo l’altro.
Ma che significato ha questo numero così grande da non essere scalfito neanche dall’età dell’universo? È la stima di un tempo di attesa. No, non di un autobus. Di qualcosa di più interessante e bello.
In breve, esiste una classe di sistemi fisici dinamici (cioè che cambiano nel tempo), che sono in grado di tornare a essere sufficientemente uguali a se stessi a patto di aspettare abbastanza a lungo. Il valore di quel sufficientemente lo possiamo decidere noi: più vogliamo essere precisi e più dovremo aspettare. Se l’universo riuscisse a mantenersi più o meno quello che conosciamo, senza strappi nello spazio o nel tempo, prima o poi quel momento “di ritorno” arriverebbe.
Questo folle risultato è racchiuso nel Teorema della ricorrenza, enunciato per la prima volta dal matematico francese Henri Poincaré nel 1890 e dimostrato vent’anni dopo da Constantin Carathéodory.
Ricordo che guardai il mio amico Cristiano: ci capimmo al volo. Se il nostro corpo, cervello compreso, facesse parte di quella classe di sistemi fisici, un teorema del genere garantirebbe che, con infinita pazienza, potremmo tornare a nascere più e più volte. Se non altro il teorema della ricorrenza di Poincaré era un bellissimo spunto per la fantascienza. Eppure, nella mia testa, c’era un campanello che risuonava. Perché questa storia l’avevo già sentita, anche se non con le stesse parole. E qui bisogna risalire ancora di qualche anno indietro. Si parlava di Robespierre e di Nietzsche. E le parole erano di Milan Kundera:
(…) Se la Rivoluzione francese dovesse ripetersi all’infinito, la storiografia francese sarebbe meno orgogliosa di Robespierre. Dal momento, però, che parla di qualcosa che non ritorna, gli anni di sangue si sono trasformati in semplici parole, in teorie, in discussioni, sono diventati più leggeri delle piume, non incutono paura. C’è un’enorme differenza tra un Robespierre che si è presentato una volta nella storia e un Robespierre che torna eternamente a tagliare la testa ai francesi. Diciamo quindi che l’idea di eterno ritorno indica una prospettiva nella quale le cose appaiono in maniera diversa da come noi le conosciamo: appaiono prive della circostanza attenuante della loro fugacità.Da L’insostenibile leggerezza dell’essere
Pare che questa idea sia venuta in mente a Nietzsche nell’agosto del 1881, mentre passeggiava tra le vie dell’Alta Engadina. Definì questa speculazione come “il più abissale” dei suoi pensieri. L’anno successivo, ne La gaia scienza, la formulò in questi termini:
È una tesi che, pur fra mille variazioni, riemerge di frequente nella storia del pensiero occidentale: l’idea di un mondo (e un destino) ciclico, che si ripete in un loop senza fine, senza apprendimenti, senza cambiamenti. Dall’ultimo ventennio del XIX secolo, passando per Leopardi, possiamo risalire alle sue prime tracce nella Grecia dei pensatori stoici del III secolo prima di Cristo. Che riprendono a loro volta degli spunti di riflessioni dei filosofi pitagorici di 300 anni prima.
In altri termini: l’eterno ritorno dell’eterno ritorno, senza aspettare un tempo di 10 elevato alla 10 elevato alla 23 secondi (o miliardi di anni, tanto non fa differenza).
Buonasera.
Questo articolo è per me molto confortante.
Mi piacerebbe tuttavia comprenderlo meglio e approfondirlo.
È possibile chiederle una mail così da farle delle domande in merito?
La ringrazio