Aggiornato il 30 Aprile 2021
La campanella che segnava l’inizio dell’intervallo era suonata, finalmente. Il peso delle tre ore appena passate si faceva sentire non poco, e avevo una fame tremenda. L’unica cosa che mi bloccava dall’alzarmi dalla sedia e fuggire dall’aula era il fatto che nessuno ancora, in classe, si fosse mosso. Mi pareva brutto uscire così, prima di tutti. In ogni caso il professore di fisica aveva smesso di parlare e in quel momento era lì, davanti allo schermo del computer, probabilmente alla ricerca di qualche documento; sembrava totalmente distaccato dalla classe, la lezione era sicuramente finita. A conferma di ciò, qualcuno si era alzato, e finalmente mi ero sentita più libera, e meno in colpa, di uscire dall’aula. Ma, proprio nel momento in cui passavo davanti alla cattedra, con in testa solo il pensiero di prendere una boccata d’aria e mangiare qualcosa, il professore si era rivolto nuovamente alla classe per dire un’ultima cosa, indicando quello che aveva appena proiettato alla lavagna.
Si sa: le cose più belle avvengono il più delle volte in modo del tutto casuale e inaspettato. Fossi uscita prima dall’aula, fossi stata assente da scuola quel giorno, probabilmente non sarebbe successo nulla, non sarei dove sono ora, non sarei chi sono ora.
Quel giorno venni a conoscenza delle Olimpiadi di Astronomia; il bando era lì, davanti ai miei occhi. Che poi lo capisci subito quando una cosa o una persona ti appassiona tanto da volerla conoscere a fondo, senza nemmeno farti venire il dubbio o la paura di rischiare, pur di raggiungere il tuo obiettivo. E in quel momento, in classe, tutto il resto aveva cessato di esistere. C’eravamo io, un tema che aveva come argomento la luce da scrivere, e una data entro cui dovevo farlo. Da quel giorno, mancava poco più di una settimana per inviare il proprio elaborato e partecipare alla selezione per la prova interregionale, che, nel mio caso, si sarebbe tenuta a Trieste. Ce la potevo fare.
E andò così.
Era l’anno dedicato alla luce, e proprio la luce delle stelle aveva incominciato a illuminare il sentiero verso il mio futuro.
– Elena! – Francesco mi tira una gomitata, una di quelle che solo lui sa dare. – Smettila di fare la pensierosa, guarda qui quanta roba!
Anche Francesco ha fatto le Olimpiadi di astronomia con me, quell’anno; lui, però, aveva partecipato alla sede di Capodimonte. E poi c’è da dire che non ci conoscevamo neppure, ciononostante sono state proprio le olimpiadi a farci conoscere.
“Ciao! Il tuo nome mi dice qualcosa… Olimpiadi di Astronomia o Premio Schiaparelli?” è stato uno dei primi messaggi scambiati su Facebook, finché uno stava in un estremo dell’Italia rispetto all’altro, giusto sei mesi fa. Poi abbiamo scoperto di essere stati già insieme, nell’elenco di tutti gli ammessi alla fase interregionale di quell’anno.
Dicevo che le cose belle nascono spesso in modo del tutto casuale: l’amicizia è una di queste.
– Elena, mi hai sentito? – mi richiama. – Dai, fai foto!
Ci troviamo in una delle stanze della specola “Margherita Hack“, a Basovizza, una delle sedi dell’Istituto Nazionale di Astrofisica di Trieste. Ci sono troppe cose da vedere e da ricordare, e sono proprio i ricordi a riaffiorare alla memoria come onde del mare sulla spiaggia: ce ne sono di più intense, altre invece sono deboli, ma comunque ritornano in modo periodico, ricorrente. Anche perché questo posto trasuda di storia: foto, oggetti, tra cui per esempio uno dei primi computer arrivati in Italia, libri sulla storia degli astronomi triestini, racchiudono tutti una parte della vita delle persone che ne motivano l’esistenza.
Lasciandoci alle spalle l’anticamera, scopriamo, sempre con grande emozione, la cupola di di 8 metri e mezzo di diametro, che ospita un telescopio riflettore da sessanta centimetri di diametro, uno dei pochi telescopi in Italia progettato appositamente per le osservazioni con pubblico e scuole, sempre sotto la guida di astronomi esperti. In realtà, la cupola stessa viene usata anche per proiettare la sfera celeste come in un planetario, video, trasmissioni in diretta, insomma, la divulgazione e la didattica non potrebbero essere svolte meglio di così.
Ma non è tutto.
In realtà l’Osservatorio astronomico di Trieste possiede anche due edifici storici. Il primo è il castello Basevi, attuale sede amministrativa, dove un tempo erano presenti gli uffici storici e la casa del direttore… anche di Margherita Hack. Nel giardino c’è la cupola del telescopio Reinfelder, dove si trovano il rifrattore storico e il suo detentore, l’astronomo bavarese J. N. Krieger, vissuto nella seconda metà del 1800. Non proprio lui, in realtà, anche se a un visitatore un po’ affrettato potrebbe sembrare così. La sua fedele riproduzione se ne sta, silenziosa, seduta a una scrivania, concentrata sui propri lavori, tra cui quello della prima mappatura della superficie lunare, talmente precisa e importante che è stata utilizzata fino alle prime sonde mandate in orbita attorno alla Luna.
Il secondo edificio è la bellissima villa Bazzoni, costruita intorno al 1837, un tempo appartenuta a una ricca famiglia triestina e ora sede degli uffici dei ricercatori e dell’archivio di numerosi dati scientifici raccolti dai telescopi spaziali e terrestri italiani.
Insomma, ogni luogo ha una sua storia, e percorrendone gli spazi, con un po’ di fantasia ed entusiasmo, anche con l’aiuto di qualche libro o di qualche fotografia, non è nemmeno difficile annullare le distanze temporali che ci separano dal passato di astronomi e astrofisici, studiosi che hanno dedicato anni della loro vita a osservare il cielo e le stelle, le stesse che, come occhi nel cielo, ora guardano noi.
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