Scrive Roberto Carvelli su HuffPost Italia:
Sono completamente con lui. Spero infatti che Claudio scherzasse, quando mi ha confessato che preferisce non fare uscire “troppi libri”, dunque vorrebbe aspettare un po’ – dopo questo suo nuovo Rinascita (Fazi Editore, 2025)- prima di pubblicarne un altro. Io non glielo dico, certo non mi permetto: segretamente, però, spero che cambi idea. Proprio come Roberto, infatti, considero ogni suo libro un piccolo regalo (sul piccolo peraltro, ci sarebbe da ragionare). E più regali mi vengono fatti, più sono contento. Non ci posso fare nulla, è così fin dall’infanzia (e di infanzia molto si parla, in questo libro). Ma già, per me, la collaborazione attiva con Claudio è un vero regalo, un tesoro. Del resto, ma come poteva mai pensare, quel ragazzetto assetato di letteratura e di comprensione del mondo, che un giorno, con l’autore di quel libricino che aveva in mano, ci avrebbe lavorato insieme?
Riavvolgo il nastro, altrimenti non si capisce. Mi innamoro dei versi di Claudio molti anni fa (correva l’anno 2008, credo), quando lui pubblica un piccolo, delicato libretto, chiamato Sognando Li Po. Non avevo mai incontrato nulla di suo, ma acquisto il volume appena dopo aver letto una recensione sul mensile Letture (che ora, purtroppo, non esiste più). In qualche modo, quel testo mi stava chiamando.
Naturalmente, mi piacque moltissimo. Ci respiravo dentro una sorta di classicismo quieto, armonico ed insieme moderno, intimo ma pacato. Quei versi, compresi assai presto, mi facevano bene. Quel ritmo segreto che scandivano, così vicino alla prosa senza mai diventarlo davvero, sistemava le cose dentro la mia anima, in modo lieve – quasi omeopatico – comunque efficace.
Ciò che allora non sapevo, non immaginavo, è che Damiani non solo lo avrei conosciuto, non soltanto avrei avuto l’opportunità di scrivere di lui, ma ci avrei anche collaborato realizzando un’intervista per Destinazione Futuro, un progetto del Gruppo Storie di INAF. E più avanti ancora – come è appena accaduto – avremmo addirittura realizzato un libro, insieme (ma questa, è già una altra storia).
Mi addentro ora in questa nuova fatica di Claudio, che alterna prose a poesie con sapiente delicatezza. Non mi azzardo ad elaborare una recensione vera e propria. Piuttosto ci entro, in quest’opera, come un astronomo che – come del resto qui facciamo sempre – è semplicemente curioso di cercare le stelle, non solo in cielo ma anche nelle parole scritte. Tra queste pagine, le stelle non mi mancano certo. Ma io già lo sapevo: Claudio non scrive mai dimenticando lo spazio, il cielo e le stelle. Tutto questo cosmo è carne viva della sua poesia, non gliela puoi strappare di dosso. Non puoi pensare le sue poesie togliendoci via il cielo: si disarticolerebbe tutto, si sfibrerebbero i rapporti tra le parole, si dissolverebbero le costruzioni verbali.
Quel cielo tenero che subito mi si spalanca davanti, appena inizio a leggere.
e a me mi andava di uscire,
camminare sotto gli eucalipti, vagare per le stradine
in quel cielo tenero
della mia infanzia.
Quello di Claudio è – qui come altrove – un cielo che si mischia, si amalgama irresistibilmente a tutto quanto vi è di più terrestre. Il testo è una quieta avventura attraverso i luoghi (gli odori, i colori) dell’infanzia. L’approccio verso questi ricordi è sempre quello di una tranquilla curiosità. E’ un tocco costantemente delicato, pacato, gentile. Curioso, soprattutto. La maturità si riappropria davvero dell’infanzia non tanto facendola propria, nel senso del possesso, ma riverberandone la carica di stupore: di nuovo, incuriosendosi, meravigliandosi. Domandando a sé stesso, anche, in pura attitudine di ricerca. Con squisita attenzione al particolare.
Il cielo riempie questi ricordi, li aggancia delicatamente uno all’altro, li tiene sempre tutti insieme, senza mai forzare. Un cielo che non è affatto indifferente a quanto accade sul pianeta, anzi si espone in un tentativo sommesso di comunione, di vicinanza.
E certo, ci sono loro. Le stelle. Misteriose già nel loro esistere. Nel loro apparente volo perpetuo.
Così, entrano in gioco gli astri. Quelle di Claudio sono stelle umane, umanissime. Non sono più – per lui, penso, non lo siano mai state – le stelle fisse, quelle che solamente stanno a guardare, ma in omaggio al nuovo modo di pensare il cosmo, sono stelle che – finalmente! – cadono e si rialzano, proprio come facciamo noi, come proviamo a fare noi, in continuazione.

Ci assomigliano, queste stelle, per cui ci diventano interessanti. Ci possiamo confrontare con loro, possiamo dialogarci, finalmente. Non sono più quelle entità lontane che osservano (e magari giudicano) i nostri poveri sforzi per vivere e le bizzarrie che facciamo per cercare sollievo alle pesantezze dell’esistere. Le stelle che non cadono, quelle troppo perfette, non ci interessano più: alla fine, non ce ne facciamo nulla (per certo, non ci facciamo poesia).
Ma è la perfezione stessa, a non essere interessante. Prima che succedesse quel che è successo, il volo di Apollo 13 veniva descritto così dai giornali: Apollo 13 troppo perfetto, la gente si annoia. Lo dice anche Cate Blanchett, peraltro, che pare non abbia preso parte al programma Apollo. Insomma, non è solo una cosa da scienziati o astronauti.
Le stelle che cadono solo le stelle soggette alle leggi del nostro mondo, alle nostre leggerezze e alle nostre pesantezze. Evadono dal regime cristallino e rigido della sterile perfezione, tornano in gioco, giocano con noi. Le stelle cadenti (l’astronomo pedante direbbe che stelle è un termine improprio, ma non fa nulla) sono, da sempre, quelle legati ai nostri più intimi desideri.
E del cielo, non si può fare a meno. Soprattutto per un poeta, è impossibile.
e non smetto di berlo.
Tornano poi spesso le farfalle. Sono quegli avamposti di terra che è già nel cielo, esseri terrestri che già vivono nella leggerezza. Attraverso di loro, si mischiano alto e basso, si fondono senza collidere, nella suggestione armonica della semplicità del volo.
erano quelle piccole azzurre
della mia infanzia che volevamo acchiappare
ma anche cavolaie che volavano a coppie tra i cespugli
e farfalle notturne che mi facevano paura
tra i gradini della scala di casa,
mi venivano incontro e io le accarezzavo
e le baciavo, era come se volassi
nello spazio e mi venivano incontro
corpi celesti, asteroidi, comete
e io li sfioravo e li accarezzavo
e in ognuno abitavo.
Il tema dell’abitare – potremmo dire, del trovare il proprio punto di appartenenza, il proprio centro di gravità permanente (per dirla con Battiato), in questo sconfinato cosmo in espansione, in perenne modificazione – è a mio avviso, il vero tema che percorre sottotraccia tutto il libro. La Terra si riscopre, pian piano, come luogo credibile dove stare, dove prendere riparo. A patto di non eludere la domanda, di non spegnere i tanti misteri, da quelli più minuti a quelli davvero maestosi. A condizione di tenerli cari, questi misteri. Di accarezzarli, di viverli.
Chiedersi dunque le cose, anche quelle che non ci chiediamo più (dove ero, prima di nascere?), anche senza trovare risposta, ci dà consistenza, ci allarga – sempre e di nuovo – uno spazio abitabile. Ogni poeta lo sa, ogni poeta è qui, su questo pianeta, proprio per ricordarcelo.
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