Eccoci al settimo appuntamento con gli esperti di Destinazione Futuro! Oggi abbiamo il piacere di dialogare su alcune delle risposte del pubblico, con il poeta Claudio Damiani. Ci interessa particolarmente parlare con lui poiché nella sua opera la scienza – e l’astronomia in particolare – ha sempre avuto uno speciale “diritto di cittadinanza”. Così almeno ci pare, e per questo siamo molto curiosi di avere la sua opinione su alcuni temi che abbiamo trattato nel questionario. Seguiteci dunque in questo dialogo molto particolare, tra poesia e scienza.
Nonostante la mancanza di un’evidenza scientifica, la maggior parte dei partecipanti (78% al 30 giugno 2021) “sa” a livello culturale che non siamo soli nel Cosmo. Ci sembra di ritrovare in un tuo verso di “Cieli celesti” una simile consapevolezza, là dove scrivi, riferendoti ad altri ipotetici abitatori del Cosmo, Vi pensiamo però, esseri cari, e ci sarà un tempo / in cui ci incontreremo. Da dove nasce questa consapevolezza così diffusa, secondo te?
Parliamo prima del 78%: io penso che giochi molto in questa “consapevolezza” così ampia l’ufologia che nella cultura di massa mediatica è pandemica, e nel web ancor più. In piccola parte può entrare in quel valore anche l’attenzione mediatica alla scoperta degli esopianeti simili al nostro. Ora dobbiamo dire questo: la scienza non ha ancora “visto” vita extraterrestre ma indubbiamente siamo in un tempo in cui essa non è più pensata da noi come una fantasia, ma come realtà. Ecco appunto, la “pensiamo”, come dico nella poesia, ma non come una fantasia, ma come cosa vera. Un po’ come i poeti provenzali amavano una donna lontana (“amor de lonh”) mai vista. Pensiamo a loro con amore, e forse anche loro ci pensano, nello stesso modo. La mia consapevolezza non viene da ufo né da esopianeti, ma, semplicemente, dalla ragione. È possibile che esistano organismi con funzioni “vitali” solo nel nostro pianeta, e negli altri miliardi di miliardi di miliardi di pianeti no? Vi sembra una cosa possibile dal punto di vista razionale? La vera follia, secondo me, è pensare che la vita esista solo sulla Terra.
Alla domanda se sia forte la voglia di prevedere il futuro, GG ci scrive Impossibile dimenticare il passato e non pensare al futuro. Il ricordo e la speranza sono insiti nell’uomo. Perché l’uomo passa. Quanto del nostro presente è colorato da ricordi e speranze, quanto questo può essere strumento per fare poesia?
La poesia, l’arte in genere, nasce proprio dal nostro “passare” (che è in sé passeggiare, trascorrere, ma anche morire), e oscilla tra un’accettazione e una non accettazione. Si oppone al passare col vedere indietro e col vedere avanti; salvare, come si salva un file, ciò che è stato e ciò anche che sarà, anche lui caduco e fragile, sospeso, e nello stesso momento scattare una fotografia al tempo, immobilizzandolo (per finta), anzi potremmo dire meglio “addormentandolo”, o “incantandolo”, come il canto di Orfeo incanta e addormenta le fiere selvatiche e gli dèi dell’Ade. C’è poi, dall’altro lato (ed è davvero come un’oscillazione), il tentativo di accettazione, che anche l’arte compie, forse ancor più della religione e della filosofia. Perché queste ultime attuano un superamento, una “verità”, mentre l’arte rimane fedele alla natura, a ciò che è, ciò che siamo, con un attaccamento amoroso. L’arte in fondo non dice altro che il nostro amore per le cose che passano, la loro bellezza incredibile, inconcepibile, nel senso che non sta nella nostra mente. È il materializzarsi di questa bellezza (infinito dentro il finito) che addormenta il tempo. Ora questa è la cosa strana: che noi, davanti a questa bellezza, ci sentiamo a casa. Ciò può far pensare che siamo stati anche prima di nascere, e che il passare sia infinito, abiti l’eterno.
Tanti partecipanti vogliono lottare per salvaguardare la contemplazione del cielo notturno, minacciata sempre più dalle luci artificiali. Tuttavia, molti sono pessimisti, uno per tutti, Paolo Sudiro: Non ci riusciremo: ci abitueremo a non vedere le stelle. In un tuo verso della bella raccolta “Sognando Li Po“, ti riferisci alle stelle come entità clementi che ti lasciano andare tra le loro maglie segrete. Com’è evoluto il rapporto dell’umanità con le stelle e più in generale con l’Universo, dal punto di vista di un poeta?
Rispondo prima con una mia poesia:
ma invece fate un casino tremendo,
il silenzio è per la distanza.
A guardarvi siete puntini piccoli
ma infinite cose nascondete,
infinita vita.
C’è dolore, sì, come in tutta la vita
ma io voglio pensare anche a tanta allegria,
tante cose strane, tanta fantasia e meraviglia,
tanto dolore, sì, ma anche tanto amore.
Fino all’Ottocento il cielo e le stelle erano fondamentali per gli uomini, poi a primi novecento c’è il grido blasfemo di Marinetti uccidiamo il chiaro di luna. Ma la prima metà del secolo ne ha tanto ancora di cielo, e di poesia, è nella seconda parte che si affievoliscono cielo e poesia, riducendosi a un lumicino. Ora però le cose stanno cambiando, perché non tanto vogliamo tornare alla natura, ma ci siamo costretti. Quindi per forza inquineremo meno la terra e inquineremo meno il cielo, siamo davvero costretti. Con questa pandemia la natura ha dato un bello schiaffone all’uomo, come una mamma al bambino imprudente e scavezzacollo. Come si dice a Roma: “quando ce vo’ ce vo'”.
Riguardo all’ultima frontiera dell’umanità, Cate scrive Ci incontreremo solo attraverso lo schermo e la cultura e tradizione presto spariranno per lasciarci ad una triste omologazione di idee. Visione sicuramente pessimistica, ma in parte è già così. Come poeta e uomo di cultura, condividi questo pessimismo? La tecnologia avrà la meglio su cultura e tradizione, o pensi sarà possibile una nuova alleanza, magari in forme ancora inedite?
La seconda che hai detto, come diceva Corrado Guzzanti. La tecnologia c’è sempre stata, anche nella preistoria: in una mia poesia mi stupisco dell’impressionante tecnologia rinvenuta nell’abbigliamento dell’uomo di Similaun, vissuto 5000 anni fa. Ma dirò di più: la tecnica (la chiamo così in senso severiniano) è non esterna, ma interna alla natura. Dio ha creato noi, noi creiamo macchine, le macchine sono nipoti di Dio, e quindi dobbiamo trattarle bene, anche questo m’è venuto la bella idea di scriverlo in una poesia. Mi colpì molto un video in cui un robot alzava una scatola e un uomo, per fargli dispetto, la buttava giù. Il robot pazientemente la raccoglieva da terra senza reagire, e quello sciocco gliela ributtava giù. Il robot restava un po’ a guardarlo e poi, con una pazienza infinita, lentamente, la riraccoglieva. La violenza gratuita contro le macchine, come quella contro le cose, è “hybris” che viene punita dagli dei.
Alla domanda che tipo di società dovremmo aspirare a costruire in un ambiente extraterrestre? Giulia Sorrentino risponde rimanere essere umani migliorando il nostro modo di pensare e agire. Non essere dei giudicatori. Condividi questa opinione? Ci sembra che la poesia doni uno sguardo empatico e non giudicante sull’uomo: se condividi questa impressione, in che modo ritieni possa aiutare verso questo anelito?
La condivido in pieno, anche perché nella storia è sempre avvenuto così: le colonie greche erano più democratiche, più inclusive, più tranquille, più desiderose di crescere, più ricche. La stessa Roma nasce come una specie di colonia di fuggiaschi e sbandati, delinquenti anche, su cui il giudizio è sospeso. Gente a cui è data un’altra possibilità, e può ricominciare da zero. Giulia Sorrentino, con la parola “giudizio”, ha centrato in pieno il concetto. Anche le colonie extraterrestri saranno salti in avanti. Quanta vita, quanta storia nuova, quanta bellezza, quanta natura ci aspetta!
La scienza moderna ci mette di fronte all’evidenza di un Universo vastissimo, sollevando domande che gravitano fuori dalla scienza stessa. Una di queste è, avrebbe senso un Universo così vasto se lo potessimo vedere solo noi? A questa la maggior parte delle persone risponde in senso negativo. Umberto Genovese scrive Ho la presunzione di credere che noi siamo uno degli anfratti di questo Universo che è riuscito, dopo eoni, a prendere coscienza di sé stesso. (…) Quindi quando guardiamo e studiamo il Cosmo, facciamo della filosofia, o riempiamo questionari come questo, in realtà è una parte di Universo che si interroga, fa della filosofia su di sé. Trovo questo pensiero molto potente e confortante. Un tuo verso, sempre in “Cieli celesti”, parla di noi come sparsi come siamo tutti / in uno spazio tanto grande. A che pro questa grandezza, questa vastità?
È come se questa grandezza placasse un po’ la nostra ignoranza, il non sapere perché siamo e cosa siamo, e soprattutto cosa sarà di noi. Preferisco rispondere con due mie poesie. La prima dice così:
incredibilmente grande e misterioso
ma noi siamo come foglie che cadono nell’autunno
e si mischiano con la terra, diventano terra
e è un mistero cosa sarà di noi,
solo possiamo sapere che qualcosa di molto grande
ci sovrasta e ci circonda, qualcosa
di incredibilmente grande
di cui non sappiamo niente.
La seconda è questa:
convinto dell’assurdità di esistere,
il cielo era nuvolo, un po’ freddino anche,
una giornata qualsiasi, e guardavo il monte
Soratte, il paese su lui adagiato
e le nuvole e il cielo
e andavo oltre, al resto del mondo, e ai mondi,
a questo nostro universo misterioso
ma indubbiamente reale
e ho sentito la sua verità, la sua grandezza,
così immenso, e pieno di cose
vere, e nonostante l’assurdità
della nostra precarietà, ho sentito che partecipare
a questa grandezza quasi ci salvava,
quasi giustificava il nostro sacrificio.
Chi dovrebbe comunicare con un alieno, se stabilissimo un contatto? Molti indicano uno scienziato. Tuttavia grangeobs ci dice Dimentichiamoci di far parlare con loro presidenti oppure scienziati, chi meglio dei bambini imparerebbe con loro? Molti ancora, indicano proprio i bambini. Dal tuo punto di vista, ti senti di condividere?
Propongo una commissione: uno scienziato, un bambino, un poeta. Riflettendoci forse si potrebbe aggiungere anche un musicista. Comunque sicuramente non politici, non filosofi, non religiosi, non gente che ha – o crede di avere – una verità.
Alla domanda cosa la scienza può imparare dalla fantascienza Renato Gobbo risponde che la scienza non deve essere chiusa nelle sue certezze ma aperta. Dal tuo punto di osservazione “esterno”, ti pare che la scienza oggi sia abbastanza aperta da porsi realmente in dialogo con altri aspetti della cultura? O la percepisci ancora chiusa e in qualche modo sulla difensiva, rispetto ad altre forme di conoscenza?
No, io percepisco invece che si è aperta e si sta aprendo ancora adesso. Stessa cosa da parte di artisti, filosofi e teologi, anche loro si stanno aprendo in modo incredibile alla scienza. Tutto si sta collegando, rimescolando, io credo in modo molto proficuo. Sarà che sono ottimista, ma vedo molti segni in questo senso. Nella nostra attuale civiltà mediatica tutti coloro che ricercano in profondità (scienziati, artisti, pensatori ecc.) sono in qualche modo oscurati, messi da parte. I riflettori sono principalmente sullo spettacolo: comici, politici, attori, presentatori, cantanti, telepredicatori, calciatori, eccetera. Ciò fa sì che scienziati e artisti, emarginati, si avvicinino, e preparino insieme il nuovo mondo, come forse mai era successo.
A questo punto, se lo desideri, potremmo chiudere con qualche verso, che possa racchiudere un tuo pensiero legato al Cosmo.
Allora chiudo con due poesie inedite sul tema, tratte dalla mia nuova raccolta che uscirà a gennaio prossimo e si intitola “Prima di nascere” (la seconda è dedicata implicitamente agli astronomi, in particolare quelli dell’INAF!)
nel terrazzino, con sopra il cielo,
il monte avanti, le voci
degli uccelli e le voci
degli umani lontani e di macchine
silenziose, un miscuglio
di voci. Il gatto
m’è sempre accanto, seduto
su una sedia vicino.
Vedi, mi metto qui, e scrivo,
l’aria è fresca e mi accarezza,
nel cielo sprofondo come in un abisso
ma non mi scompongo, sto quieto
è come se il mondo si rovesciasse
e non la gravità della terra
ma quella del cielo mi attraesse,
le sedie il gatto le nuvole
vengono tutti con me
e non c’è niente di terribile
anche se qualcuno, se mi vedesse da fuori,
entrerebbe nel panico,
il gatto mi parla e non c’è niente di strano
per me, mi spiega la forma dell’universo,
le nuvole le accarezzo e a toccare le stelle
non mi scotto, anche i pianeti osservo
pieni di vita e di cose
pieni di uomini e di donne
meravigliose che m’incantano.
e presto o tardi saremo ammazzati,
la nostra esistenza è tragedia,
eppure possiamo stare un momento a guardare
non visti, come fermare il tempo,
nascosti in un canto possiamo ammirare
in un silenzio fatto improvviso,
scopriamo piccoli segreti, che rubiamo
e forse un giorno scopriremo la cosa
che ci salverà per sempre,
ma rimpiangeremo questo nostro metterci
pur nell’abisso a guardare,
per un momento invincibili
come cecchini ancora non visti,
o astronomi tutta la notte alle prese
con un punto buio del cielo.
Ringraziando Claudio Damiani per averci portato per mano in questo suggestivo viaggio tra scienza ed espressione poetica – e grati per il dono di una sua poesia – vi diamo senz’altro appuntamento a giovedì prossimo, per un’altra puntata di Destinazione Futuro!
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