L’Italia è terra di poeti, lo sappiamo bene. Ne abbiamo di grandissimi, davanti all’arte sublime dei quali il mondo intero (e chissà , forse anche qualche altro mondo…) non può che inchinarsi. Accanto a questi esiste anche una moltitudine di autori cosiddetti minori, indubbiamente interessanti.
Non sono affatto a mio agio con la dizione poeta minore. Che vuol dire, in fondo? Se la poesia è veramente personale – un rifulgere misterioso di una individualità unica, che trova il modo di comunicare sè stessa, il suo specifico spettro di colori – come può mai un poeta essere minore? Soprattutto, minore rispetto a chi? Potrebbe un altro – magari un grandissimo, un Nobel – riprodurre lo spettro di colori e sensazioni di un cosiddetto minore? Avrebbe potuto un Ungaretti scrivere al modo (poniamo) di Nicolò Bacigalupo, se avesse voluto? Penso proprio di no.
Come le galassie, in pratica. Ormai lo sappiamo, ogni galassia nell’universo ha una forma tutta sua, unica. Possiede un mix unico di popolazioni stellari al suo interno, con una distribuzione chimica specifica, con distribuzione di velocità , di età , di gas e polveri, tutte proprie. Può esserci una galassia minore rispetto ad un’altra? Di fatto, da tutte impariamo qualcosa, dalle nane fino alle giganti. Ed anzi – anche se non siamo scienziati – possiamo perfino collaborare a nuove scoperte nel campo.
Lo spazio di universo di un poeta minore è comunque tutto suo. Si capisce bene, come in questo nostro ragionamento si arrivi al livello della responsabilità personale: la tua tavolozza poetica, il tuo spettro di parole, la tua particolare collezione di autofunzioni letterarie, è solo tua. Se rinunci a manifestare tutto ciò, nessun altro sarà in grado di farlo al posto tuo: rimarrà dunque un vuoto nell’universo (espressivo).
Non mi pare sia così per la scienza: il Teorema di Pitagora, se non lo formalizzava Pitagora, l’avrebbe fatto qualcun altro, prima o poi. Mera questione di tempo, potremmo dire. Invece una poesia di Saffo, se lei stessa non la faceva nascere al mondo fisico – esponendone la forma scritta, o narrandola perchè fosse tramandata – sarebbe rimasta per sempre inespressa.
Per questo, ogni tentativo di altri di terminare un’opera incompleta, rimane appena un tentativo: un esperimento interessante, ma nulla più. Penso al materiale parziale – già saturo di lancinante bellezza – della Decima Sinfonia di Gustav Mahler. Oppure all’appena abbozzata Decima di Beethoven, di cui scriveva l’amico Gianluigi Filippelli tempo fa. Come l’avrebbe completata l’artista, la sua opera? Probabilmente non lo sapremo mai: nessuna intelligenza artificiale, nessuno sforzo naturale, ce lo potrà rivelare.
Quindi, accostarsi anche a un poeta minore (dico così, per brevità ) come Girolamo Comi, non ci esime affatto dall’avvertire tutta la trepidazione possibile per il fatto che stiamo entrando in un universo particolare, con le sue leggi e i suoi canoni, il suo unico spettro di colori e le sue peculiari distribuzioni di energia.
Girolamo Comi nasce a Casamassella (in provincia di Lecce, un piccolo paesino che oggi conta qualche centinaio di abitanti) nel 1890, e muore a Lucugnano (sempre provincia di Lecce) nel 1968. Di umili origini, presto si trasferisce a Parigi dove viene a contatto con gli esponenti della poesia simbolista del primo Novecento.
Frequentatore assiduo di salotti buoni viene a conoscenza delle idee di Rudolf Steiner, esoterista e teosofo austriaco, e conosce Arturo Onofri, uno dei massimi poeti metafisici italiani del Novecento. Onofri – apro e chiudo parentesi – è uno capace di scrivere versi folgoranti. Sentite:
Girolamo senz’altro fu in grado di recepire efficacemente il simbolismo francese, passando attraverso a tendenze metafisiche anche enigmatiche, che poi lo portarono all’adesione alla fede cattolica, fede che nella sua anima si colorava di un panismo indubbiamente sensuale e carico insieme di efficaci slanci spirituali.
Una riprova di quanto andiamo dicendo è senz’altro in questa Belle carni del cosmo che ci lancia subito nello spazio, uno spazio (per l’appunto) magico e misterioso.
d’una nativa e fatale armonia,
e luci della voce che dorate
le curve degli spazi e degli istanti
d’una profonda e continua magia,
onde del verbo cariche di canti
e d’inni antichi in cui si svela il fiato
del mistero che governa il creato,
oscuri scambi di semi contrari,
in voi matura lentamente il terso
respiro dello spirito universo.
Si potrebbe indugiare su questi versi per parecchio tempo, elogiandone la morbida eleganza e la potente carica evocativa. C’è qui la sensibilità quasi moderna di un universo morbido e accogliente, ben distante dalle polverose teorizzazioni di spazi sterminati e freddi, che hanno spesso inquinato la nostra mente.
Del resto, già parlare di belle carni del cosmo è riportare il cosmo a misura di donna e di uomo, è renderlo di nuovo familiare, amico. E che dire delle curve degli spazi e degli istanti, peraltro? Qui si potrebbero ritrovare – incarnate nel sentire poetico – le idee di Einstein sullo spazio curvo e perfino un accenno allo spaziotempo in sè (le curve sono infatti sia degli spazi che degli istanti), dove appunto la dimensione temporale è inestricabilmente intrecciata con quella spaziale.
Non ci dobbiamo stupire, la poesia sente quello che sente la scienza, momento per momento (tanto che perfino i neutrini posso essere oggetto di poesia), e la proietta nel suo specifico piano di lavoro. Ed insieme, poesia e scienza, procedono per proporci quel cammino personale di maturazione, che è assai bello poter seguire.
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