Al Master in Comunicazione della Scienza della SISSA ce lo hanno detto fin da subito: le metafore sono pericolose. Anche le similitudini, ma soprattutto le metafore. Perchè si intrecciano in modo ancora più ambiguo del solito con i pensieri che sono già presenti nelle menti che accolgono il messaggio e non se ne capisce il limite.
Pensate per esempio all’espressione buco nero: in che modo un non esperto può elaborare questo concetto? E la nube elettronica, con cui designiamo l’insieme degli elettroni di un atomo? Le nubi si scontrano, provocano tuoi e fulmini; dalle nubi piove. Insomma: la metafora scatena una serie di associazioni personali che sfuggono completamente al controllo del comunicatore. Se non si è sicuri della metafora, meglio evitarla.
Nella vita è ancora più complicato. Pensate a Tomà¡Å¡, uno dei protagonisti de L’insostenibile leggerezza dell’essere, dello scrittore Milan Kundera, da poco scomparso all’età di 94 anni.
Tomà¡Å¡ aveva incontrato Tereza per la prima volta circa tre settimane prima in una piccola città della Boemia. Non erano stati insieme nemmeno un’ora. Lei lo aveva accompagnato alla stazione e aveva aspettato con lui fino al momento in cui era salito in treno. Dieci giorni dopo venne a trovarlo a Praga. Fecero l’amore subito, il giorno stesso. Quella notte le venne la febbre e rimase perciò l’intera settimana nel suo appartamento con l’influenza. Egli provò allora un inspiegabile amore per quella ragazza quasi sconosciuta; gli sembrava che fosse un bambino che qualcuno aveva messo in una cesta spalmata di pece e affidato alla corrente di un fiume perchè Tomà¡Å¡ lo tirasse sulla riva del suo letto (…) Tomà¡Å¡ allora non si rendeva conto che le metafore sono una cosa pericolosa. Con le metafore è meglio non scherzare. Da una sola metafora può nascere l’amore.
Che effetto ha fatto su di me questa metafora? àˆ dagli ultimi anni del liceo che esiste esplicitamente dentro di me – con tutte le parole al posto giusto. Ma la sensazione è che abbia svelato a me stesso una mia disposizione d’animo. O forse mi piace solo pensare di avere quella disposizione d’animo.
Fatto è che da sempre, in qualsiasi genere di attività , concludo con l’immagine che trovate qui sopra: Felix che usa la Luna per prendersi cura di un bambino.
E se non uso immagini, la racconto come il senso della cultura e del mio lavoro: cambiare in il mondo in un luogo dove ci si prende cura dei più deboli.
Provare so di provarci: che poi ci riesca davvero è un altro discorso. Di sicuro mi piace raccontarmi così. Di ancora più sicuro è che ho adottato (si noti la metafora) una metafora per la mia vita professionale di comunicatore. Contraddicendo la regola numero uno del Master che mi ha formato.
In altri termini, vivo e lavoro allevando una serpe in seno: me stesso.
Ritorneremo su Kundera in uno dei prossimi numeri di questa rubrica, quando parleremo – appunto – del teorema del ritorno.
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