Aggiornato il 21 Luglio 2021
La prima volta che incontrai gli alieni ero alla “Dante Alighieri“, avevo 7 anni e indossavo un grembiulino nero. Era una classe di soli bambini maschi ma, se non me lo avessero detto, non me ne sarei neanche accorto. L’ultimo giorno di scuola, arrivarono due persone e ci dissero che metà di noi poteva andare a casa e tornare il giorno successivo; chi restava avrebbe fatto subito gli esami di seconda elementare. Non li avevamo mai visti, quei signori, ma io sapevo chi erano. Erano gli altri, i non-me, gli alieni, appunto. Lo sapevo perché nei mesi precedenti, babbo e mamma mi avevano regalato un’opera meravigliosa, che si intitolava Io e gli altri. Nuovissima enciclopedia del ragazzo (ed. La Ruota) e che era illustrata da Flavio Costantini ed Emanuele Luzzati. Era un’enciclopedia militante e colorata, piena di fumetti, complessa e sognante. Qualsiasi voce si cercasse, nel giro di qualche paragrafo, il discorso cadeva sulla necessità della rivoluzione proletaria e sul fatto che la giustizia si trova solo nell’equilibrio tra “io” e gli “altri”.
“Io” era facile: ero proprio io, bambino. Ma gli “altri” chi erano?
Fino al momento degli esami i miei pensieri erano confusi. Alcuni erano “altri”, ma non del tutto. Io non ero del tutto quei bambini, ma un po’ sì: i miei amici, i miei compagni di classe, la mia sorellina. Erano tutti un po’ me. C’erano poi i bambini che non conoscevo, certo, ma anche loro erano simili a me. I veri candidati a essere gli altri erano gli adulti. Però c’erano babbo e mamma, zii e zie, nonni e nonne: più altri dei primi, ma non abbastanza. Erano una via di mezzo fra me stesso e il mondo.
Dopo quel giorni però, gli adulti veri, gli altri, iniziarono a distinguersi più chiaramente. Ce n’erano almeno di tre categorie diverse: gli amici dei miei genitori, gli sconosciuti e i veri e propri extraterrestri, quelli più diversi di tutti (gli extraterrestri bambini non erano frequenti). Non erano gruppi omogenei. In ciascuno potevano esserci compagni di Lotta Continua, proletari normali, borghesi, ricchi e tutte le altre minoranze.
Sarà stato per merito di Costantini e Luzzati, oppure di Che Guevara e Giulio Cesare, che se ne stavano appesi uno accanto all’altro in camera mia, a guardarsi sospettosi. Fatto è che in quel periodo ho capito due cose:
1) viviamo in un mondo pieno zeppo di alieni;
2) il mondo sarebbe stato più bello, più esteso, più ricco, se mi fossi sforzato di diventare un attore. Se fossi stato cioè in grado di immedesimarmi in tanti ruoli, assumendo punti di vista diversi. Avrei dovuto essere non solo io, ma anche gli altri. Io e gli alieni, tutti dentro di me.
Forse è per questo che quando leggo le statistiche sui pianeti extrasolari scoperti fin qui, mi intenerisco e mi irrito al tempo stesso.
Mi spiego meglio. La scoperta dei pianeti extrasolari non è una news effimera: è una di quelle scoperte che cambiano il pensiero nella storia dell’umanità. Roba da saltare in fretta sulla macchina del tempo, tornare a Campo dei Fiori il 17 febbraio 1600 e urlare Fermi tutti! Farsi largo fra la folla, spegnere il rogo di Giordano Bruno e continuare: Aspettate quattro secoli e poi ne riparliamo, che fretta avete? Avete di meglio da fare: non avete ancora scoperto i batteri, la forza di gravità, la ferrovia. Dedicatevi a quello e lasciate stare Bruno.
Figuriamoci che, dopo la scoperta di Kepler-452b, il primo a essere identificato, adesso siamo a oltre 150 pianeti nella categoria di quelli “simili alla Terra“. Ancora sappiamo ben poco sulle loro superfici e praticamente niente sulla loro atmosfera, sulla presenza di materiale organico, amminoacidi, proteine, trilobiti o trichechi. Intanto, però, ci portiamo a casa la certezza che mondi simili al nostro esistono davvero. Non è solo un atto di umiltà teorico: siamo sulle soglie del dato di fatto. Brava specie umana, mi dico intenerito: passo dopo passo finirà che saremo davvero in grado di esplorare l’Universo. Noi, proprio noi che ci perdiamo per le strade di quartieri appena meno noti di quello dove abitiamo. Noi che ci sgomentiamo perché in casa non abbiamo carote o un gelato al limone o siamo annoiati. Siamo così, noi.
E l’irritazione da dove nasce? Mi irrito con me stesso perché, mi dico, Homo sapiens è un odioso pasticcione. Dante ha inventato un intero viaggio nell’Oltretomba solo a enumerare qualche peccato di base: e oggi la nostra inventiva in merito è assai maggiore di quella che conosceva il sommo poeta. Mi torna in mente, allora, quel bambino, il me di allora, l’io-e-gli-altri che ero, che gli alieni voleva cancellarli immaginando di essere uno di loro. A provarci oggi, più che su un pianeta extrasolare, dovrei immaginarmi su un barcone che parte dalle coste dell’Africa carico di sconosciuti; dovrei immaginarmi in una delle tante zone di guerra, nell’istante prima di saltare su una mina. E un istante dopo dovrei immedesimarmi nell’amico che lo sta vedendo morire. Nella mente di uomini che sparano alle donne o di donne che vengono uccise da uomini. In un mendicante della città dove vivo. Come è possibile, mi chiedo, che davvero viviamo fra persone che rendiamo aliene? Come è possibile che gli alieni terrestri ci siano più lontani di quelli che, forse, brulicano nell’universo? E mi sento in colpa per l’eccitazione e la tenerezza provata prima: perché Homo sapiens è lo stesso ed entrambi gli aspetti vivono in me. Appassionato e indifferente. Come è possibile?
Come è possibile che alcuni pezzi di me, scioccamente orgogliosi della nostra esplorazione dell’universo, non vedano chi hanno vicino? Come posso essere così alieno a me stesso – io che volevo essere (e per tanti versi cerco ancora, quotidianamente, di essere) io-e-gli-altri?
Per dire: l’astronomia non è lontana come sembra. Aiuta davvero a riflettere su noi stessi: su noi e gli altri. Purché si faccia.
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