Lo spazio tra le pagine

Qualcosa di noi

Alcune considerazioni sull'esplorazione marziana a partire da una poesia di Davide Rondoni.

Mi dico, forse sta avvenendo tutto troppo velocemente. Intendo, la conquista dello spazio, l’esplorazione degli ambienti planetari, l’odierna nuova corsa alla Luna. Troppo in fretta perché scivoli dalla nostra testa al nostro sistema circolatorio, perché veramente se ne possa fare esperienza, perché divenga tutto davvero concreto. Per millenni lo spazio e quanto contiene, è rimasto completamente irraggiungibile, e nell’arco di pochi decenni questa situazione è drasticamente mutata.
Solo per l’esplorazione del pianeta Marte, le sonde inviate sono ormai varie dozzine. Ci sono panorami di Marte – la cui distanza media da Terra è superiore ai 250 milioni di chilometri, insomma non proprio dietro l’angolo – che possiamo ammirare con un grado di dettaglio ormai superiore a quello delle foto che possiamo portiare a casa dalle gite fuori porta della domenica, quelle con amici e parenti. Ciò che per secoli e secoli è stato oggetto di immaginazione e speculazione, ora improvvisamente è reale.

Sonda su Marte
“Rover in meditazione su Marte” di Davide Calandrini@davidecalandrini – vedi la versione originale

Ma se la poesia è una riflessione sul senso delle cose, possiamo ipotizzare che una qualsiasi faccenda divenga per noi ancor più reale quando su di essa può poggiarsi lo sguardo di un poeta. Quando cioè si presti a passare dalla mera cronaca all’ambito dove il senso di quello che accade può essere oggetto di quella speciale elaborazione, capace di connettersi a tutto l’umano, che è propria della poesia. Che l’esplorazione dello spazio abbia parecchio a che fare con la poesia magari non è immediato, eppure dei segnali in questo senso ci sono senz’altro.
Scelgo ad esempio una poesia di Davide Rondoni, di pochi anni fa. Si intitola significativamente In seguito a una notizia riportata dai giornali sulla perdita di robot sul pianeta Marte. Questo è l’inizio (il testo integrale si trova in rete):

Su Marte muoiono i robot.
ce ne sono alcuni che passeggiano
da molto tempo lassù
ma dicono che un paio
abbiano rallentato
le trasmissioni, lanciato segnali
più sommessi, e niente infine
niente più.
Il loro corpo immobile
non sente più le stelle.
forse hanno appreso un’altra lingua,
hanno trovato un nuovo buio
che del tutto li stupisce.

Anche il più sfegatato fan dell’esplorazione spaziale può trovare utile ritornare alla poesia perché tutto quel che accade – anche nel cosmo – abbia più gusto, coaguli un significato più profondo. Marte, l’abbiamo scritto, è uno dei pianeti più gremiti di sonde di tutto il Sistema Solare: non ancora colonizzato da noi, ma già pieno di roba nostra, per dire.
In questo framework, il poeta non si appaga nel mero dato “oggettivo” di un agglomerato metallico che – tra i tanti – smette di funzionare, in un posto molto distante da dove è stato creato. Egli cerca tenacemente (a volte perfino fastidiosamente) un significato. Cioè è chiamato a compiere l’opera di rimappare quel che accade nell’ambito magico e sfuggente della comprensione emotiva. Così facendo compie una operazione che irrobustisce la stessa indagine scientifica, ne rinforza l’agire e la innesta su un piano di comprensione umana ancor più piena.
Le scoperte astronomiche infatti non le fanno i robot, ovvero non avvengono in un orizzonte avulso dal contesto umano più ampio, ma sono conseguenze dirette di un’attitudine filosofica. L’occidente è progredito incredibilmente nell’esplorazione del mondo fisico perché i suoi fondamenti filosofici – ed anche metafisici – si basano su una apertura e una fiducia verso la conoscibilità e la comprensibilità ultima di ciò che esiste.
Questa fiducia governa tutta la poesia di Davide Rondoni, se ci facciamo caso. Non una fiducia a buon prezzo, ma una fiducia temprata e ragionata, maturata nelle incombenze, nelle sofferenze. La luce che esce per sbalzo sul buio, insomma. Classe 1964, Rondoni ha scritto diverse raccolte, pubblicate in Italia e all’estero. Ha fondato e dirige la rivista Clandestino. Io sono particolarmente affezionato ai volumi Avrebbe amato chiunque (che trovo bellissimo già dal titolo) e Apocalisse Amore.
Anche in questa poesia marziana trovo traccia di questa fiducia ragionata. Se infatti viene detto in apertura che muoiono i robot poco più avanti questa morte viene contestualizzata ed innervata di significati più profondi, per i quali la fine – a guardarci dentro bene – non è affatto una fine ma una trasformazione, un passaggio di soglia.
L’ipotesi di lavoro che viene introdotta è certamente suggestiva, hanno trovato un buio che del tutto li stupisce. Ovvero sono silenziose, queste sonde, non parlano con la Terra, non perché sono spente, ma perché prese da qualcosa che assorbe totalmente la loro pur sintetica attenzione. Nel trovare un’altra lingua si sono sintonizzate su un protocollo di comunicazione che non è più il nostro, non è quello che abbiamo codificato nei loro circuito, quello al quale siamo abituati.
Dunque, seguendo questa ipotesi, c’è un nuovo stupore che pervade queste sonde e che le rende apparentemente mute, ce le fa pensare addirittura morte. C’è un salto di linguaggio, uno scarto brutale, una evoluzione del protocollo, che interrompe la comunicazione. Ma sempre la comunicazione si interrompe se uno degli interlocutori cambia livello e se non raccogliamo l’invito a cambiare anche noi, rimaniamo esclusi dal discorso.
Perché il poeta ultimamente ci avverte di questo (su Marte o sulla Terra, è uguale), non possiamo ricircolare sempre sulle stesse cose, gli stessi temi e tempi, i medesimi atteggiamenti. La vita è in evoluzione, l’universo è in espansione accelerata, i quasar più distanti – fatti due conti – si allontanano da noi alla velocità di quarantaquattromila chilometri al secondo e insomma non c’è singolo istante uguale ad un altro. Oggi non è come ieri, i quasar sono appunto assai più lontani, il panorama generale è mutato.
Abbandonare il modello di universo statico vuol dire abbracciare (che lo si sappia o no) l’idea che non ci sarà mai – cosmologicamente parlando – un giorno uguale ad un altro. Questa è una nozione che dobbiamo fare nostra, dobbiamo ruminare fino a farla diventare – anche con l’aiuto della poesia – davvero parte di noi.
Per questo universo che si espande a rotta di collo, appunto, ci vogliono nuovi linguaggi, nuovi modalità di espressione, ci vuole anzi un intero dizionario della lingua inaudita (prendo a prestito qui il titolo di un recente volume di un altro poeta, nonché filosofo, Marco Guzzi).
Oggi la scienza ci apre scenari incredibili di altri mondi, panorami di pianeti e lune, mondi lontanissimi che superano di molto la nostra troppo timida immaginazione. Un tesoro inestimabile per cui ringraziare l’impresa scientifica, donne e uomini che vi si dedicano con passione e competenza. Un cammino che possiamo fare in compagnia della poesia: anche Rondoni ci avverte infatti che non è affatto opposta alla scienza. Da fare insieme, perché tutto quello che si vede di nuovo, acquisti più sapore, ci lasci un gusto che non svanisce. Non svanisce, proprio perché dice qualcosa di noi.

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Scritto da

Marco Castellani Marco Castellani

Ricercatore presso l'Osservatorio Astronomico di Roma. Si interessa di popolazioni stellari ed è nel team scientifico del satellite GAIA di ESA. Divulgatore e scrittore per passione, gestisce da anni il blog divulgativo Sturdust.blog (già GruppoLocale.it) e coordina il progetto Altrascienza.it.

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