I più non saranno d’accordo, ma io sostengo che il primo a capirlo è stato Vasco. Con la lungimiranza tipica dei veri artisti, ce l’ha cantato chiaro, già molti anni fa. Addirittura, era il marzo del 1987 e all’epoca nessuno ancora ci pensava, ma lui già era avanti, molto avanti. C’è chi dice no, è la canzone in oggetto.
Davvero, nessuno ci pensava. Perché a quell’epoca, non solo non c’era Webb, ma perfino Hubble (con tutti i ritardi che ha accumulato) contrariamente ai piani iniziali, doveva ancora essere lanciato (per la cronaca, lo sarà solo tre anni dopo). E lui però l’ha detto, è incontestabile. E bisogna dunque dargli il dovuto credito.
Le parole sono difficilmente equivocabili, peraltro.
In questo cielo
C’è qualcuno
Che non sa
Più che ore sono
Adesso, lasciamo pur stare le ultime tre strofe, che già da sole aprirebbero un discorso assai complesso sulla nostra percezione del tempo, sul crollo moderno del concetto di simultaneità, messo in crisi dal logico sviluppo della fisica relativistica: un cambio di paradigma che Vasco descrive in modo così compiuto e succinto, da far invidia a Ungaretti. Bene ci avverte Carlo Rovelli nel suo libro sui buchi bianchi, che non c’è tempo universale: la realtà è la rete tessuta fra i tanti tempi locali dalla possibilità di scambiarsi segnali. Ha ragione, che diamine. Ma di questo ci occuperemo, magari, un’altra volta.
Fermiamoci alle prime due strofe, ora. Perché già asserire che c’è qualcosa che non va / in questo cielo, vuol dire fotografare la situazione attuale in appena un pugno di parole, che è già cosa mirabile. Ma averlo fatto trentasette anni prima che il problema si manifestasse con chiarezza, è davvero prodigioso. Una sorta di Nostradamus moderno, nientemeno.
Infatti, solo oggi noi leggiamo che il James Webb non conferma il modello standard, per esempio. E attenzione, è un titolo molto forte per il contesto nel quale appare, perché non si trova su un sito che cerca di monetizzare appoggiandosi sulla strategia del clicbait, ma si tratta di un sito istituzionale, quell’eccellente global scienze offerto dall’Agenzia Spaziale Italiana.
E non è isolato. Più o meno sullo stesso registro si muove Coleum Astronomia, quando asserisce (segretamente confortato dalle parole di Vasco?) che il JWST sfida il modello standard. Con maggiore prudenza sembrerebbe invece muoversi Media INAF, che nell’eccellente articolo di Rossella Spiga, cautamente titola sulle osservazioni non standard per le galassie di Webb. L’apertura è comunque molto netta e va nella direzione profetizzata da Vasco, ancora una volta (il neretto è mio):
E qui sta tornando fuori, se si va a vedere uno degli lavori originali, la faccenda delle teorie MOND, ovvero della dinamica newtoniana modificata. Che stavano cadendo un po’ nel dimenticatoio, bisogna dirlo (sia pure con occasionali ritorni di fiamma). Non ci fosse stato il James Webb a costringere gli astronomi a ritirarle fuori, cercando un modo per farsi tornare i conti. In sostanza, si tratta di una modifica alla classica legge della gravitazione, praticamente irrilevante per gli esperimenti che possiamo fare qui a Terra, ma potenzialmente decisiva in determinati contesti astronomici.
E qui si comincia finalmente a capire qualcosa, se guardiamo attentamente le date. A scorgere, come in filigrana, le correlazioni sotterranee. Perché l’articolo fondativo per queste teorie è pubblicato, a firma di Mordehai Milgrom, sulla prestigiosa rivista The Astrophysical Journal addirittura nel luglio del 1983. Il lettore attento, a questo punto, avrà già tratto le debite conclusioni.
Come già Alan Sorrenti ci aveva dato un sunto mirabile della nucleosintesi primordiale, nel suo Figli delle stelle, qui Vasco ci segnala – in forma codificata ma nemmeno troppo – che ha recepito i modelli MOND (a pochi anni dalla loro formulazione, notare bene) e li sostiene, perché appunto è consapevole che c’è qualcosa che non va nel modo in cui interpretiamo i fenomeni del cielo, e la formulazione di una gravità modificata potrebbe essere la soluzione.
Una nota importante, prima di proseguire. Giunti a questo punto, qualcuno potrebbe pensare che si vuole vedere nelle semplici canzoni dei messaggi che non sono intenzionali. Questo cioè può apparire, in fin dei conti, solamente un gioco.
Nel merito, ci sono almeno due questioni da considerare. Primo, il gioco è una delle più serie attività umane, di notevole efficacia terapeutica. E’ attribuita a Platone la frase secondo la quale si può scoprire di più su una persona in un’ora di gioco che in un anno di conversazione. Molto tempo dopo, Friedrich Schiller poteva scrivere allora l’uomo è veramente uomo, quando, giocando, si diverte con le cose. Secondo, questo tipo di gioco – leggere i testi delle canzoni da angolazioni inedite – vuol dire semplicemente onorare tali testi, per quello che realmente sono.
I testi delle canzoni sono delle spugne. I testi delle canzoni assorbono con incredibile facilità il clima emotivo e il modo di pensare dell’epoca in cui sono formulati. Di certi anni, addirittura di certi mesi. Talvolta appaiono vaghi, è ben vero: ma è quella vaghezza che ti consente di applicarli anche fuori dal contesto in cui (ingenuamente) tu pensi che siano da ritenere validi. Tornando a noi: dire c’è qualcosa che non va in questo cielo – e specificamente dirlo in una canzone – è esprimere un concetto poliedrico e polimorfo, che sfugge ad ogni categorizzazione rigidamente cartesiana, rimanendo piuttosto di espandersi cosmologicamente, di ampliarsi ed applicarsi ad una serie di ambiti, ambienti e situazioni, le più diverse. Nel caso presente, sussiste innegabilmente una chiara valenza sociale (egregiamente confermata dal video originale della canzone), ma può non essere l’unica cosa che vi possiamo trovare.
Il cielo stesso è un concetto poliedrico e polimorfo: ci sono i cieli emotivi, i cieli spirituali, i cieli astronomici… Ma se una certa epoca registra un problema, sente che c’è qualcosa che non va nel cielo, può essere un indice di un disallineamento a vasto spettro, che si riverbera sui vari modi di intendere il cielo. Perché poi questi modi sono tutti collegati e non sussistono che tutti insieme.
C’è chi dice no al modello classico di come l’universo si è evoluto (innegabilmente vaschiano il titolo del servizio andato in onda per Leonardo nei giorni scorsi, Modello standard? JWST dice no). C’è chi non si rassegna a cercare ancora, chi non si spaventa di smuovere pseudo certezze consolidatesi negli anni.
Quanta gente comunque ci sarà / che si accontenterà, questo è vero. Ma il vero scienziato – e il vero poeta – non si accontentano mai. Cercano sempre il modo di sfondare il limite, di arrivare ad una visione più chiara. Se si apre un’epoca di crisi per lo scenario cosmologico classico, è con tutta evidenza una crisi di crescita. Stare in questa crisi (per citare ancora Vasco, io non mi muovo) con pazienza, lavorare per comprendere, coabitare amichevolmente anche con tesi contrastanti, è l’unica attitudine che ci potrà restituire un nuovo cielo, in miglior accordo con quanto vediamo apparire sugli strumenti, e con quanto leggiamo nel profondo della nostra anima.
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