Aggiornato il 28 Novembre 2024
Complice la calura estiva, questo mese ci teniamo leggeri: evitiamo di affrontare l’analisi di poderosi volumi di alta letteratura, ritornando piuttosto ad occuparci di parole per la musica, che pure – come già abbiamo sperimentato – spesso e volentieri trattengono fermenti astronomici degni di essere analizzati con più attenzione.
Ordunque, correva l’ormai lontano 1977 e un certo Alan Sorrenti, sempre più distante dalle ardite sperimentazioni di album quali Come un vecchio incensiere all’alba in un villaggio deserto di qualche anno indietro, pubblica il suo quinto lavoro, decisamente più agile, titolato Figli delle stelle. Il brano omonimo diventa subitaneamente (e prevedibilmente) famosissimo, complice un incedere melodico decisamente orecchiabile, felicemente radiofonico. Il successo commerciale è immediato, tanto che in breve riesce a scalzare dalla prima posizione in classifica un assoluto gigante come Un’emozione da poco di Anna Oxa (che più di qualcuno ricorda oggi nella esplosiva interpretazione dello zingaro nel film Lo chiamavano Jeeg Robot).
Qui ne parlo, però, per il suo testo, innegabilmente astronomico, come lo stesso Sorrenti riconosce nell’intervista concessa ad Angelo Adamo.
Figli della notte che ci gira intorno
Noi siamo figli delle stelle
E non ci fermeremo mai per niente al mondo
Noi siamo figli delle stelle
Senza storia e senza età , eroi di un sogno
Noi stanotte figli delle stelle
C’incontriamo per poi perderci nel tempo
Sorrenti si dimostra esperto comunicatore, inserendo in pochi versi accenni ad acquisizioni astrofisiche moderne senza svellerle dal contesto cosmologico più antico, più consolidato. Perchè, svaporate ormai le velleità di sperimentazione, qui l’essenziale è che passi il messaggio.
Che non è scontato. A ben guardare, dire siamo figli delle stelle è sostenere qualcosa di ancora relativamente nuovo per la nostra sensibilità . Perchè ancora stupisce a pensarci, a pensare che è veramente così.
Le stelle sono in effetti l’unica fabbrica autorizzata dal cosmo per la produzione della maggior parte degli elementi chimici: per intenderci, quelli della famosa tabella di Mendeleev che tutti abbiamo incontrato a scuola. Sono efficientissime centrali a fusione nucleare che, con pazienza, assemblano gli elementi più pesanti (atomi con numero atomico via via maggiore) a partire da idrogeno ed elio, i componenti base che sono stati prodotti dal Big Bang. E poi li rilasciano nello spazio, principalmente (ma non solo) attraverso le spettacolari esplosioni a supernova.
Verissimo: da tempo è uno scenario ben chiarito dagli studi di evoluzione stellare. Che fatica però sperimentiamo, nel fare veramente nostra questa evidenza, ancora.
Lo diceva bene Giorgio Gaber, Un’idea, un concetto un’idea / Finchè resta un’idea / è soltanto un’astrazione / Se potessi mangiare un’idea / avrei fatto la mia rivoluzione Siamo figli delle stelle in senso più che proprio, perchè siamo fatti di materia stellare. L’unione tra cielo e terra non potrebbe essere più salda di così, nei fatti. Ma siccome questo concetto fatichiamo a farlo entrare nella carne – abituati da un pensiero millenario a separare le cose del cielo da quelle della Terra, a pensare alle stelle come puntini luminosi e basta – giova senz’altro che anche una canzone di facile ascolto, ce lo possa ogni tanto ricordare.
Sorrenti, come già si accennava, mischia nuovo e vecchio in una sola – digeribilissima – miscela sonora. Abile, perchè questo mix, portandoci al gusto anche cose che ci risultano familiari, non ci spaventa. Frequento da anni i concerti in Auditorium, e capisco che i programmi più riusciti sono quelli che articolano un misto tra composizioni note e altre meno note. Che incurisiscono, senza spaventare. E i veri rivoluzionari, quelli veramente dirompenti, operano sempre scavando dal di dentro della tradizione.
Così Sorrenti accosta, a questo dato astrofisico ancora tutto da digerire, l’idea scientificamente accantonata (nei libri di testo, ma non nelle nostre teste) di una notte che ci gira intorno ovvero un cielo di stelle fisse che appunto, girano. Perchè ciò è quanto vediamo, ed è sempre difficile non credere ai nostri occhi. O meglio, crederci in modo consapevole.
Diciamo la verità . Sotto un cielo stellato, ci ricordiamo che le stelle non ci girano affatto attorno, ma siamo noi a girare, e non siamo fermi al centro del cosmo ma sfrecciamo con il nostro Sole a più di duecento chilometri al secondo (ovvero, circa ottocentomila chilometri all’ora) in una larghissima orbita dentro la Via Lattea? Ci ricordiamo che ogni notte che osserviamo il cielo, il cielo non è mai uguale? I quasar più lontani, rispetto a ieri, sono già più lontani di miliardi di chilometri da noi: altro che stelle fisse!
Questo Sorrenti non lo dice, non ci confonde la mente. Si muove – saggiamente – in lenta progressione, dandoci il tempo necessario per ambientarci nel nuovo scenario. Già il ruolo di figli delle stelle è qualcosa a cui dobbiamo abituarci. Ancora dobbiamo, dopo quasi mezzo secolo dall’uscita della canzone. Non si può mettere troppa carne al fuoco in un brano che vuole essere disimpegnato e leggero, che non punta a ristretti cenacoli intellettuali ma ambisce alla cima della classifica, alla conquista del mercato.
Cosa (questa del mercato) che noterà , con una punta di malizia, anche Franco Battiato, che in Bandiera Bianca – brano dell’album La voce del padrone uscito nel 1981, ad appena quattro anni dal brano di Sorrenti – dovrà arrendersi all’evidenza che siamo figli delle stelle / pronipoti di sua maestà il denaro. Inequivocabile il riferimento, anche se quel siamo non è tanto per dire, perchè anche Battiato proprio con quell’album sancisce il suo ritorno pieno al facile ascolto (rimanendo geniale anche nei brani easy, ma questo è un altro tema).
Insomma, se ora ci guardiamo intorno e ci sorprendiamo al pensiero che tutto quello che ci circonda è passato in un interno stellare, forse è anche merito di Sorrenti. Che ha divulgato efficacemente un importante tema astrofisico, mascherandosi dietro una operazione apparentemente commerciale. E se dopo mezzo secolo siamo ancora qui a parlarne, vuol dire che ci è riuscito in pieno.
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