Andrea de Carlo lo incontrai anni fa a Roma, in una libreria del centro, ed in tale occasione gli potei parlare brevemente. Fu molto cordiale con me, tra l’altro mi parve sinceramente interessato al lavoro di un astronomo. Se ben ricordo, era il giro di presentazione de L’imperfetta meraviglia, dunque non era ancora stato pubblicato Una di Luna (2018, edito per La nave di Teseo) – titolo veramente alla De Carlo, come Due di Due oppure Di noi tre (due capolavori, se volete la mia opinione), ma evidentemente l’astronomia già orbitava nei suoi interessi.
Una di Luna non è forse il De Carlo che preferisco in assoluto – quello di Durante, per dire, o del Teatro dei Sogni – ma è quello che meglio degli altri, si presta ad essere attraversato in chiave squisitamente astronomica. Del resto, narra una vicenda che vive davvero in luce lunare, una storia tenue e con una trama semplice, scritta in modo lineare, dove vincono i colori sfumati sulla complessità degli intrecci, dove i particolari sono definiti quel tanto che basta. A volte sono appena sbozzati, in verità. E probabilmente, ha senso.
Perché con la luce di Luna – ecco il punto – non vedi tutto chiaro, scorgi appena qualcosa. Intuisci, più che vedere. Non sei investito da quell’ingente flusso di fotoni così esplicito, assertivo, che sbalza fuori tutti i particolari più minuti e li espone al mondo, a volte perfino impietosamente. No, qui c’è questa Luna che rende ogni dettaglio più misterioso, carico di suggestione. Un regno più di emozioni che di decisioni, un ambito che non espone confini precisi e rifugge da ogni assertività netta. Un territorio psichico dove, finalmente, può avviarsi l’opera di recupero di quella parte di mistero, di cui spesso avvertiamo così acuta nostalgia.
Margherita Malventi è la protagonista del romanzo e la Luna la sua vera, costante compagna. Margherita soffre fin dall’infanzia un rapporto conflittuale con la figura del padre Achille, un famoso chef, uomo abituato a comandare e farsi obbedire: geniale nel suo mondo, ma pieno di fragilità e di parti irrisolte. Lei si sviluppa come complemento e quasi riequilibrio cosmico di questo genitore così unidimensionale nel tratteggio, così facilmente delineabile, così aridamente terrestre (fatte salve rade eccezioni, come quella del brano in apertura). Perché nello spaziotempo occupato da Achille, il cielo e la Luna non sono quasi mai presenti.
Margherita non si affanna nell’impossibile impresa del risolversi nell’ambito del comando e del possesso. Laddove il padre è intrinsecamente violento proprio perché intende eccellere restringendosi alla parte razionale e misurabile (e perché recisa da ogni contatto con lo spazio, miserabile), lei invece trattiene e custodisce un suo punto di fuga che è cosmicamente rappresentato dalla presenza della Luna. Costante e pervasiva, lungo tutto l’arco della sua vita.
Margherita ha un piccolo ristorante a Venezia, nel sestiere di Castello, dove si dedica a una cucina più intima e riflessiva di quella del padre. Per mille ragioni, Margherita è persuasa che la Luna le abbia salvato la vita, più di una volta.
Margherita accetta di accompagnare a Milano il padre il quale – ormai anziano – si muove nella speranza di un ennesimo riconoscimento esteriore (l’occasione è la partecipazione come “ospite d’onore” in una nota trasmissione televisiva di cucina), ovvero nella speranza – tristemente sclerotizzata dal ripetersi degli stessi schemi, ormai quasi ossificati – di compiersi innanzitutto nelle cose, ma non nei rapporti, nelle relazioni (nemmeno quella con la moglie, mamma di Margherita, la quale ormai vive di quieta sopportazione). Anche in questa occasione Margherita abita nella parte speculare dell’universo psichico, spera ancora – contro ogni speranza – in un compiersi del rapporto con il padre. Spera irresistibilmente proprio in questo, in un pieno compiersi di rapporti.
E sarà proprio una inattesa ricchezza di rapporti – anche se non quelli che pensava, quelli che prevedeva – che investirà Margherita in questo viaggio, una ricchezza che farà da significativo contraltare all’aridità e all’inganno che risponderanno, quasi fisiologicamente, alla inesausta sete di riconoscimento esteriore di suo padre. Nello spazio di Margherita infatti irromperà presto l’enigmatica figura di Jules, che con la sua sensibilità (pur se a volte ambigua, davvero lunare) ne individuerà subito i tratti caratteristici.
In questo essere vista, addirittura riconosciuta per quello che è davvero e che il padre non vede – o non vede più – Margherita troverà ciò che la scuote dal suo mondo e dai suoi rituali ormai automatici guidandola verso una maggiore autenticità, verso un vivere più vero ed intenso.
“Cosa dici?” ho detto, perché le sue parole mi toccavano come non avrebbero dovuto. Ho accelerato il passo, mi sono infilata sotto il portico, a testa bassa.
“Scoprire la tua parte solare è stata una sorpresa straordinaria” ha detto lui; mi veniva dietro veloce, le ruote della mia borsa-carrello grattavano sul lastricato.
“E quando l’avresti scoperta?” ho detto; non volevo sentirglielo dire, volevo sentirglielo dire.
Uno svelamento ed una crescita del carattere, una esposizione al cosmo, dalla quale non si può tornare indietro impunemente, perché ormai si è andati oltre, ci si è affacciati – complice la Luna – su una vita più ampia ed imprevedibile, felicemente esterna alla gabbia delle consuetudini. Tale dolorosa impossibilità di rientro Margherita la sperimenta ben presto sulla sua pelle, quando tenta appunto di ritornare alla vita prima del viaggio.
Margherita si troverà dunque spinta – si direbbe dalla Luna stessa – ad un deciso cambiamento di vita. A quel punto, con ogni evidenza, la Luna avrà come esaurito la sua funzione, di protezione e di guida. Questo, si capisce bene dall’ultima frase del romanzo stesso, che significativamente termina – e come potrebbe altrimenti? – proprio con la parola Luna.
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