non si aprono nel cielo.
La terra è quella che brilla
come uno stellato firmamento.da Pietra e cielo, 1919 - Traduzione di Claudio Rendina
Lo dico subito: è un cielo ben vivo quello del poeta Juan Ramon Jimenèz, un cielo le cui stelle normalmente si aprono come fiori. Non sempre, appunto. Ma quando non lo fanno, comunque, risponde la Terra.
La Terra appare in dialogo continuo con il cosmo: così, dove uno dovesse mancare, ecco che sovviene l’altro. Il firmamento brilla a volte anche quaggiù. In questo scambio simbiotico, cielo e terra si danno vita reciprocamente, si sostengono l’un l’altro. La Terra non è contrapposta al cielo ma è parte di un tutto: cosa che spesso il poeta intuisce più rapidamente dello scienziato, il quale alle volte rischia di smarrirsi nei dettagli, per le doverose (ed anche preziose) indagini sul particolare fenomeno oggetto delle sue analisi. Per questo il poeta è necessario allo scienziato (e vale anche il viceversa, per intuibili motivi). Ma questa non è tanto una tesi da dimostrare a parole, quanto un percorso da vivere, da verificare giorno per giorno: che a pensarci bene, è anche il motivo di esistere di questa rubrica.
Torno però al nostro Jimenèz, il quale nasce la vigilia di Natale del 1881 nella provincia andalusa di Huelva (dove si dice soggiornò Colombo prima dell’avventura americana). Inizia ben presto a scrivere e proporre (anche con una certa fortuna) poesie a varie riviste. Secondo le stesse sue parole, Io scrivevo, scrivevo come un pazzo, versi e prose. E, inoltre, li pubblicavo. Nessun giornale o rivista, di Huelva, di Siviglia, di Madrid, a quell’epoca, mi lesinò spazio e, in molti, ebbi un posto di rilievo, un ritratto e persino un compenso. E leggevo, leggevo disordinatamente, tumultuosamente, tutto quanto mi capitava tra le mani.
La sua vita è segnata da numerosi viaggi, alternati a lunghi periodi di depressione. Jimenèz non si arrende mai alla malattia: tiene continuamente conferenze e corsi, collabora a molte riviste. E continua a viaggiare, accolto da molte università . Si stabilisce finalmente a Porto Rico, dove insegna all’università locale. Lì la morte lo coglie nel 1958, due anni dopo la scomparsa della moglie, Zenobia Camprubà, scrittrice e traduttrice spagnola (prima traduttrice ispanica di Rabindranath Tagore, tra le altre cose), che aveva conosciuto a Madrid nel 1913 e che avrebbe sposato poi a New York nel 1916. Appena tre giorni prima della morte della moglie, aveva ricevuto il Premio Nobel per la letteratura.
La poesia di Jimenèz è tutta pervasa da una sottile musicalità , la quale in non poche occasioni si intreccia con lo stupore del cosmo, che rappresenta un termine di confronto quasi costante. L’anima umana, come traspare nei suoi versi, è in grado di accogliere l’universo: le dimensioni spaziali non contano più, non hanno mai contato. Leggendolo, comprendiamo come sia in gioco una affascinante geometria delle emozioni, diversa – ma certo non meno vera – di quella cartesiana.
Ciò appare particolarmente evidente nella lirica D’un tratto mi dilata, dove il poeta si rende conto di essere in grado – in forza di una felice intuizione – di contenere interi mondi dentro di sè:
la mia idea,
e più grande mi fa dell’universo.
Allora, tutto sta
dentro di me. Stelle
dure, mari profondi,
idee d’altri, terre
vergini, sono la mia anima.
E a tutto comando io,
mentre senza comprendermi,
tutto pensa a me.
In questa epoca dove rischiamo quotidianamente di essere sovrastati dal flusso di dati e di immagini che ci arriva dallo spazio – grazie ai nuovi telescopi come il James Webb o come Euclid, solo per citare due grandi progetti recenti – ritengo sia più che mai necessario tornare al potere unificante e avvolgente della parola poetica, anche per quanto riguarda lo spazio. Se l’idea infatti mi fa più grande dell’universo è decisivo un approccio al cosmo che sia cordiale ed amichevole, scevro da ogni timore, da ogni sospetto, da ogni senso di inadeguatezza.
Poichè a volte ci domina un senso di spaesamento di fronte all’immensità che ci circonda – e che esploriamo sempre meglio, ogni giorno di più – meglio di centomila discorsi rassicuranti da parte degli addetti ai lavori, ci può venire in aiuto la parola poetica, che fin da Saffo ha stabilito un contratto di amicizia e di confidenza con il cosmo. I segni del cosmo, insomma, non devono farci paura.
esatti — fuochi e tinte —
con un segreto umile, dissolto
in un’aria diafana
di azzurra e fonda trasparenza.
Così dirà infatti il poeta in un’altra lirica, Notturno, dedicata ad Antonio Machado.
Ci hanno raccontato per troppo tempo la favola triste di un cosmo ostile, avverso, separato dall’uomo, distante dal suo cuore. Un universo dove saremmo piccoli ed insignificanti: che distanza da tutto questo, l’intuizione poetica di contenere il cosmo intero, che felice ribaltamento di prospettiva! Frequentare la visione poetica degli spazi siderali aiuta a ritrovare l’amicizia con il cielo, la nostra vera casa (anche appoggiati su un pianeta, siamo sempre armonicamente immersi nel cosmo).
Sappiamo ormai di essere in un universo amico, dove ormai si contano a migliaia i pianeti extrasolari (alcuni veramente da fantascienza), diversi dei quali potrebbero vantare condizioni compatibili con la vita. Un pensiero nuovo dunque si impone. Coscienti però della difficoltà dell’impresa: pensare il cosmo in modo nuovo impone un lavoro quotidiano, non è cosa che si comprende una volta, e via. Troppe visioni errate ancora ci pesano addosso, ci abitano inconsciamente.
Ma è possibile dire tutto questo in modo assai più limpido e sintetico, utilizzando le parole stesse del nostro poeta:
che continua ad essere impossibile.
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