Lo spazio tra le pagine Arte e letteratura

Superare la vertigine

Nei versi di un Pascoli quasi "fantascientifico", ritroviamo un modo di vedere il cosmo e ci interroghiamo sulla possibilità di abitare un universo più interessante ed "accogliente"...

A volte anche i grandi poeti indulgono nella fantascienza. O almeno, adottano taluni stratagemmi di fantasia “cosmica” per poter esprimere nei versi, più liberamente, il loro profondo sentire.
Così ha fatto – tra i tanti – Giovanni Pascoli, nel componimento La vertigine che si trova all’interno della raccolta dei Nuovi poemetti. Il nostro Pascoli fantascientifico immagina un fanciullo che abbia perduto il senso della gravità e sia dunque libero di fluttuare nel cielo, tra gli astri ed i pianeti.

Pascolicalandrini
“Il fanciullino pascoliano”, disegno di Davide Calandrini – @davidecalandrini – vedi la versione originale

Mentre qui riporto soltanto alcuni versi, potete sempre recuperare il testo integrale su WikiSource.
Il poemetto si apre con il nostro fanciullo errante che osserva le persone sulla Terra,

Uomini, se in voi guardo, il mio spavento
cresce nel cuore. Io senza voce e moto
voi vedo immersi nell’eterno vento;

voi vedo, fermi i brevi piedi al loto,
ai sassi, all’erbe dell’aerea terra,
abbandonarvi e pender giù nel vuoto.

Ed è come se ogni solidità fosse subito evacuata, come se dalla sua nuova prospettiva, le persone pendessero giù nell’eterno vuoto, a stento trattenute sulla superficie del pianeta. Quasi che il vuoto, il nonsenso, risultasse cosmicamente preponderante, pronto a strappare donne e uomini dal loro precario appiglio planetario.
Appena più avanti, il fanciullo dà piena voce al suo sgomento per questo suo involontario peregrinare in un cosmo insensato ed ostile (un cosmo che non non dà riposo, per cui la veglia è l’unica opzione possibile).

Io veglio. In cuor mi venta la tua corsa.
Veglio. Mi fissa di laggiù coi tondi
occhi, tutta la notte, la Grande Orsa:

se mi si svella, se mi si sprofondi
l’essere, tutto l’essere, in quel mare
d’astri, in quel cupo vortice di mondi!

veder d’attimo in attimo più chiare
le costellazioni, il firmamento
crescere sotto il mio precipitare!

precipitare languido, sgomento,
nullo, senza più peso e senza senso.
sprofondar d’un millennio ogni momento!

Non c’è alcun sollievo in questo tuffo nello spazio, nella visione implacabile di Pascoli. Tutt’altro. Il cosmo si manifesta all’uomo come freddo ed inospitale: sperdersi in esso dà le vertigini. Nessuna possibilità di amicizia o di alleanza, con quel mare d’astri. Nessun affratellamento è pensabile, con quel cupo vortice di mondi!
Perfino l’Orsa Maggiore, la Grande Orsa, non regala alcun conforto al povero fanciullo: ella lo fissa appena, con i suoi tondi occhi, guarda silenziosa lui che vaga – anzi precipita – in uno spaziotempo distorto e straniato per cui ogni momento è un millennio.
Questo è davvero interessante. Giovanni Pascoli (nato a San Mauro di Romagna nel 1855 e morto a Bologna nel 1912) è essenzialmente un poeta dell’Ottocento – forse il maggior poeta decadente italiano – formatosi sulle idee del positivismo. Come sappiamo, tale sistema di pensiero esprime una grande fiducia nella scienza e nel progresso scientifico-tecnologico. Tale fiducia però, nei sensibili registri del poeta, non si traduce affatto in una ingenua esaltazione dell’avventura scientifica (astronomica, in questo caso). Prevale invece il sentimento di un mondo indifferente se non addirittura ostile, verso il quale l’uomo non ha sostanzialmente potere.
Non penso affatto che sia un caso, ma quasi una necessità. Difatti, il contraltare del positivismo – puntualmente affiorante nei versi del Pascoli – è che se è pur vero che l’uomo può operare nell’ambiente con la sua astuzia e la sua volontà, rinforzate della scienza e della tecnica, la sua opera è essenziamente una presa di possesso di un mondo ostile, da realizzarsi con la volontà e la fredda determinazione.
Non è insomma un paese per fanciulli, lo spazio. Non c’è modo di rilassarsi, in esso. Pascoli esprime sostanzialmente (anche se poeticamente) una cosmologia di dominio (è una lotta in cui prevale il più forte) e non di relazione (un fecondo scambio tra diversi soggetti, per cui il tutto è più che la somma delle parti).
Come è diversa la concezione di Pascoli perfino da quella di una qualsiasi tribù primitiva, in cui tutto era sacro! Poiché l’uomo dell’Ottocento ha perso qualsiasi contatto sacro (potremmo anche dire, se la parola imbarazza, portatore di senso) con le stelle, ha allontanato da sé qualsiasi racconto mitico e simbolico, ecco che questa sperdutezza e questa paura si possono fare avanti, trovando sostanzialmente terreno libero.
Ritengo fondamentale sostare in questo sentimento, perché ancora impregna il nostro tempo. Come ben scrivono Leonardo Boff e Mark Hataway, nel volume Il Tao della Liberazione, abbiamo smarrito una narrazione onnicomprensiva che ci dia l’impressione di avere un posto nel mondo. L’universo è diventato un luogo freddo e ostile, in cui dobbiamo lottare per sopravvivere e guadagnarci un rifugio in mezzo a tutta l’insensatezza del mondo Questa mi pare esattamente la visione di Pascoli. Non certo teorizzata, ma dolorosamente espressa, con tutta la perizia di un grande poeta. Tanto che, ancora oggi, tocca i nostri cuori e ci fa partecipi – quasi nostro malgrado – di questo smarrimento.
Che paradosso! Muriel Ruckeyser dice, con fulminante intuito, che L’universo è fatto di storie e non di atomi eppure qui si è persa del tutto la possibilità stessa della narrazione. Forse proprio per questo avanza la paura, lo smarrimento: perché si sono arrestate le parole. Narrando il cosmo stabiliamo una amicizia operativa con esso, entriamo in una relazione. Invece è il tacere, il nascondere, che può generare mostri.
Oggi, ci stiamo tirando fuori a fatica dal sentire pascoliano. Che è una tentazione umana sempre presente. Ce ne vogliamo tirar fuori – pur ammirando la perizia dei versi di un poeta immortale – per inseguire una possibilità di felicità maggiore, di appagamento più compiuto. Per rifare amicizia con il cielo, con lo spazio. Per sviluppare una nuova narrativa del cosmo, che sia intrecciata di meraviglia. Scardiniamo ogni vertigine soltanto se scegliamo un sistema di riferimento più confortevole, se ci facciamo guidare da una diversa stella polare.
E non la si pensi come questione meramente astronomica. Rappresentare il cosmo in un determinato modo è rivelativo di come rappresentiamo noi stessi ed il mondo che ci circonda. Che atteggiamento abbiamo, se il pendolo interiore gravita verso la diffidenza e lo scoramento o verso la fiducia e l’abbandono. Davvero la cosmologia è legata a doppio filo con la percezione più profonda di noi stessi. Scrive Heynemann che l’immagine cosmologica rappresenta il nostro mondo interiore. Tutto ciò che sappiamo o immaginiamo è contenuto, consciamente o meno, al suo interno. Per inciso: ecco perché la cosmologia è interessante. Perché parla di noi.
Se osserviamo il meraviglioso ammasso di galassie di Perseo, come ce lo ha mostrato Euclid in una immagine di pochi giorni fa, il cupo vortice di mondi ci si rivela invece come una splendida abbondanza di galassie di ogni forma e dimensione. Dunque, non più paura ma ammirazione, stupore. Tutta la moderna impresa tecnologica spaziale, se non è per ricondurci ultimamente ad un cosmo più amichevole, ad uno spaziotempo più accogliente e morbido, non ci aiuterà a fare quel salto di consapevolezza, che da più parti è ormai sentito come assolutamente necessario.

Add Comment

Click here to post a comment

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Scritto da

Marco Castellani Marco Castellani

Ricercatore presso l'Osservatorio Astronomico di Roma. Si interessa di popolazioni stellari ed è nel team scientifico del satellite GAIA di ESA. Divulgatore e scrittore per passione, gestisce da anni il blog divulgativo Sturdust.blog (già GruppoLocale.it) e coordina il progetto Altrascienza.it.

Categorie