Aggiornato il 1 Giugno 2022
Chi non ha almeno una volta immaginato la scienza come il regno assoluto dell’oggettività, un ambito raro, anzi unico, in cui tutto è sotto controllo e non ha voce in capitolo quello che la stessa scienza chiama bias – il preconcetto? Così facendo però dimentichiamo che la scienza, come ogni altra impresa umana, è fatta da persone e che ognuno di noi porta con sé un bagaglio di stereotipi e pregiudizi presenti nelle società in cui viviamo, a volte in forma implicita e altre volte un po’ meno. Assorbiti dagli individui nel corso degli anni, questi vengono poi inevitabilmente riprodotti, anche inconsapevolmente, e non trovano difficoltà alcuna a propagarsi nella comunità scientifica e addirittura nei contenuti e nella conoscenza che questa comunità produce. A discapito, questo è chiaro, sia della società che della scienza stessa.
Un discorso valido per stereotipi e pregiudizi di ogni genere, e che qui applichiamo al caso specifico delle questioni di genere. Degli stereotipi – e dei conseguenti pregiudizi – che molte ragazze incontrano sin dalla scuola quando si avvicinano a materie come la matematica, la fisica, l’informatica e l’ingegneria ha parlato su queste pagine Sara Ricciardi in una recente intervista a Costanza Turrini in occasione della Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza. Stereotipi nati molto spesso nei meandri della ricerca scientifica stessa, riflesso di epoche storiche specifiche da cui oggi si fa però ancora fatica a emanciparsi, e i cui effetti si manifestano evidentemente nella demografia della comunità accademica, descritta in un altro recente articolo di Ilenia Picardi.
Una utilissima guida per orientarsi negli ultimi due secoli di scienza che studia le donne, alla ricerca di differenze che, molto spesso, si sono poi rivelate fallaci, è il libro Inferiori della giornalista scientifica britannica Angela Saini, pubblicato in Italia nel 2019 da Harper Collins. Un viaggio attraverso la medicina, la psicologia, le neuroscienze, l’antropologia e la biologia evolutiva per raccontare tutte le sfaccettature di quel circolo vizioso che, anche a causa dell’assenza – o ridotta presenza – di donne nei ranghi della scienza, ha prodotto molti dei bias che hanno contribuito per lungo tempo a escluderle da quegli stessi ranghi e di come, negli ultimi decenni, la crescente presenza femminile in diverse discipline scientifiche sia foriera di cambiamenti. Dalla rimodulazione dei quesiti di ricerca sulle differenze tra donne e uomini al ripensamento di molti dei paradigmi esistenti, questa nuova ondata sta facendo vacillare, uno per uno, anche i più ostinati tra gli stereotipi di genere.
Si parte dall’epoca di Charles Darwin e dalle due donne, Caroline Kennard ed Eliza Burt Gamble, che sfidarono il biologo inglese, la prima in un carteggio con lo stesso Darwin, la seconda in un libro apparso nel 1894. Quello che mettevano in discussione non era la teoria dell’evoluzione in sé ma un aspetto molto specifico: la presunta superiorità intellettuale degli uomini sulle donne, menzionata ne La discendenza dell’uomo. Date queste premesse, specchio della condizione femminile nella società Vittoriana, argomentare il contrario è una strada tutta in salita.
Tra i vari argomenti presentati nel libro c’è la diatriba, che dalla fine dell’Ottocento si protrae fino ai giorni nostri, sulle dimensioni del cervello: in media, il cervello delle donne pesa 5 once (circa 140 grammi) in meno rispetto a quello degli uomini. Benché il consenso attuale inquadri questa differenza specifica nel contesto delle differenze generali sulle dimensioni del corpo – una volta bilanciata correttamente con le dimensioni del cranio, la differenza diventa irrilevante – non mancano studi che continuano a muoversi lungo questa linea di pensiero, cercando paralleli tra le disparità nella distribuzione relativa della materia cerebrale o dei collegamenti tra le diverse aree del cervello e i diversi ruoli che uomini e donne si trovano a ricoprire nella società. Oppure la ricerca di eventuali differenze nel comportamento tra neonati di sesso maschile e femminile, idea proposta sulla base di studi poi contestati ma che ha dato adito ad ardite interpretazioni su ipotetiche differenze tra la mente femminile, presumibilmente più portata all’empatia e alla socializzazione, e quella maschile, sistematizzante e che preferirebbe la costruzione e l’uso di oggetti meccanici. Si tratta evidentemente di un campo di indagine in cui è molto difficile separare cosa sia davvero innato e cosa invece indotto, anche nelle primissime fasi della vita umana, dall’ambiente sociale in cui si è immersi.
In questi e molti altri casi, l’autrice intervista ricercatori e ricercatrici da entrambi i lati del dibattito, mostrando come molti studi dall’interpretazione spesso controversa, ma che vertono su argomenti fortemente polarizzati, abbiano fatto ripetutamente il giro del mondo a bordo di news dai titoli sensazionalistici, mentre ricerche meno accattivanti, che negli anni a seguire hanno cercato di riprodurne i risultati, spesso senza trovare conferma, hanno vita meno facile non solo nel ciclo delle news ma anche nelle riviste specializzate, poco interessate ai cosiddetti “risultati negativi”. Ecco un altro circolo vizioso, linfa per gli stereotipi nati dalla ricerca di differenze (che a sua volta ha origine nell’immaginario tradizionale del “diverso”) da cui continuano a trarre forza. Ma che può essere spezzato.
Un esempio iconico, descritto sia nel libro di Saini che in una recente intervista pubblicata su MediaInaf Tv sul tema Donne e scienza a Francesca Vidotto, ricercatrice in fisica teorica e filosofia della scienza, è quello della primatologia, la scienza che studia i primati, l’ordine dei mammiferi a cui appartengono le scimmie e gli umani. Disciplina dominata dagli uomini fino agli anni ’70 del secolo scorso, la primatologia si era storicamente concentrata sull’osservazione degli esemplari maschi e aveva dedicato particolare attenzione agli scimpanzé, specie notoriamente aggressiva e competitiva. L’ingresso nel campo di ricercatrici quali Jane Goodall, Dian Fossey, Birutė Galdikas, Sarah Blaffer Hrdy e Amy Parish ha riscritto l’approccio alla materia, con innovazioni tra le quali ricordiamo l’attenzione anche verso i comportamenti degli esemplari femmine durante il lavoro di campo, e un inedito interesse per una specie a lungo trascurata: i bonobo, la cui società a conduzione femminile si distingue per comportamenti come la cooperazione e l’empatia.
Ma allora le donne fanno scienza in maniera diversa? Non necessariamente. Ognuno di noi, per una combinazione di caratteristiche personali ed esperienze vissute, porta un punto di vista diverso e peculiare, e se c’è una cosa che la storia della partecipazione femminile alla ricerca scientifica mostra è l’importanza della pluralità di punti di vista nello sviluppo di teorie sempre più complete e accurate. Molteplici punti di vista differenti contribuiscono a ridurre il bias e ad avvicinarsi, in un certo senso, a quella fantomatica oggettività che tanto piace associare alla scienza. Ma soprattutto, possono contribuire alla graduale scomparsa di stereotipi e pregiudizi, presupposto per la costruzione di una comunità di ricercatori e ricercatrici sempre più eterogenea, accogliente e plurale.
Abbiamo parlato di:
Inferiori
Angela Saini
Harper Collins, 17 ottobre 2019
320 pagine, brossurato – € 19.50
ISBN: 9788869055669
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