Scoperte Donne e scienza Interviste Inclusione

Non possiamo essere tutte Marie Curie. E va bene lo stesso.

Intervista a Lorenzo Gasparrini in occasione della Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza.

In occasione dell’11 febbraio, Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza, abbiamo incontrato e intervistato Lorenzo Gasparrini, filosofo e formatore femminista (alla faccia di chi dice che non è possibile, parole sue) impegnato nella formazione sull’equità di genere, rivolta a diverse età e diversi contesti, dalla scuola alle aziende. Con lui abbiamo parlato di equità di genere nell’accesso alla cultura scientifica e nel lavoro anche in ambito di ricerca astrofisica.
Molte delle cose di cui abbiamo parlato superano i confini di questo specifico ambito di conoscenza e di lavoro. Per questo abbiamo deciso di pubblicare questa intervista in due uscite, la prima l’11 febbraio e la seconda l’8 marzo, quando di nuovo gli occhi saranno puntati sui temi di equità di genere, e quando sarà bello per noi continuare a parlare di possibilità eque, racconti sociali onesti per le vecchie e nuove generazioni, verso una libertà vera di scegliere se diventare uno scienziato o una scienziata, ma anche di autodeterminarsi in qualsiasi altro ambito della propria vita.

Lorenzo Gasparrini
Lorenzo Gasparrini

Praticamente tutto quello che vorrei chiederti ti è già stato chiesto. Come fai ad avere la forza e la voglia di ripetere le stesse cose?
Devo dire che ci sono tante soddisfazioni: quando dei ragazzi in autogestione ti chiamano in una scuola, quando una persona ti manda la fotografia di un altro ragazzo che in piazza si siede su una sedia e legge un tuo libro a tutti… una cosa che mi ha lasciato veramente sbalordito. O un’azienda che compra 50 copie del tuo libro come regalo ai dipendenti. Sono cose che fanno piacere e ti fanno capire che stai facendo qualcosa di abbastanza sensato.
Poi c’è questa strana cosa che accade puntualmente nei pressi dell’8 marzo o del 25 novembre: tutto il mondo ti chiama. Io cerco di dire guardate che possiamo parlare di queste cose anche al di là di queste date, tipo possiamo parlarne anche a luglio. Ma questa è un’altra piccola battaglia che porto avanti.

Grazie per aver voglia di parlarne anche qui. Aggiungiamo un’altra data, l’11 febbraio, la Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza.
Secondo te perché servono ancora queste giornate? Perché stiamo ancora parlando di questo? Nel 2022 magari in altri posti del mondo si affrontano problemi un po’ più complessi della binarietà maschio/femmina: questa non dovrebbe essere qualcosa su cui ci siamo capiti ormai?

Molto probabilmente in effetti ci siamo capiti, nel senso che quello della parità è un discorso condiviso. Il problema è che rimane un discorso, perché quando dall’esistenza di pari diritti si passa alla questione più complessa dell’esercizio di pari diritti, comincia la difficoltà, perché in realtà un gruppo certamente non minoritario (le donne) ha ancora grosse difficoltà a esercitare gli stessi diritti che hanno gli uomini, cioè non hanno le stesse possibilità di far valere quei diritti che gli sarebbero pure garantiti. Quando si parla di esercizio di diritti, si incontrano ancora tristi fenomeni, come il gender pay gap, il soffitto di cristallo e tutta una serie di altre cose che certo non dovrebbero esistere, che sappiamo bene che non sono giuste, ma che continuano a esistere. Quindi in realtà è vero che questa questione l’abbiamo capita, ma adesso dobbiamo farci qualcosa, perché averla capita evidentemente non basta.

Parliamo del lavoro in ambito scientifico. Se non ne sapessi niente, diresti che nella ricerca astrofisica ci fossero le stesse iniquità che altrove? O di più, o di meno?
Penserei quello che credo sia in effetti la realtà, cioè che ogni ambito ha e costruisce disparità di genere proprio a seconda della sua natura: è una delle grandi difficoltà nell’affrontarle, nel senso che non si trova quasi mai la stessa modalità dispari in ambienti di lavoro, in ambienti di formazione, in ambienti sociali diversi. Però sei sicuro che ci sono. Bisogna dotarsi degli strumenti e della sensibilità necessaria a vederli. Per esempio, sono sicuro che in un ambito di alta ricerca scientifica c’è qualcosa di legato al lavoro di equipe; c’è qualcosa di legato al valore che ciascuno e ciascuna dà al lavoro di quell’altro o di quell’altra; c’è qualcosa di legato alla gerarchia e al prestigio, come succede spesso negli ambienti piuttosto elitari. E poi c’è una diffusa sensazione che in realtà proprio perché l’ambiente è di alto livello, questi problemi non arrivano, per cui molte persone hanno l’illusione di trovarsi in un ambiente neutro per il genere, nel quale non conta se sei uomo o donna. Ecco, quando senti qualcuno dire qui non conta se sei un uomo o una donna sei sicura che lì esiste un problema di genere.

È possibile quindi che nell’ambiente della ricerca scientifica ci si senta un po’ “al di sopra” delle questioni di iniquità di genere? Ne hai esperienza?
Sì, perché il fatto di essere altamente istruiti e particolarmente votati a un compito molto difficile, a un lavoro molto esclusivo e in un ambiente intellettuale certamente non comune, fa sentire lontani e irraggiungibili da problemi che sembrano socialmente più diffusi. Non è così in realtà: quei problemi entrano perché fanno parte della cultura nella quale ciascun essere umano si trova e quindi anche il ricercatore e la ricercatrice scientifica. Bisogna capire come si presentano quei problemi in quella particolare situazione, in quel particolare ambiente. Possono essere meccanismi di esclusione, possono essere valutazioni sbilanciate a seconda del genere. E queste cose accadono anche laddove si mettono in campo strumenti per essere più oggettivi possibile. Esistono esperimenti che mostrano quanto in realtà sia quasi impossibile evitare distorsioni dovute al genere nella valutazione personale, sia in chi esamina sia in chi viene esaminato, anche in presenza di test oggettivi. Questo significa che non bisogna ignorare questi problemi, fare finta che non arrivino, che non esistano, ma dotarsi degli strumenti necessari per farli venire fuori e poi per correggere i bias e le distorsioni che portano, senza scandalizzarsi perché sono cose che è ovvio che accadano. Bisogna accettarlo.

Ho letto il post su Instagram in cui parli del libro Scienziate nel tempo di Sara Sesti e Liliana Moro. Le donne sono sottorappresentate nelle discipline STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria, Matematica), pensi sia un problema di modelli di riferimento?
È un problema molto circolare: è chiaro che non ci sono molti modelli femminili in un campo che è stato dominato da una differenza di potere tra i generi che lo abitavano. Quindi è chiaro che i modelli sono pochi, perché è stato sempre difficile per chi appartiene a un certo genere emergere come figura: per condizioni sociali, perché in tutte le epoche (il libro parte dalle scienziate dell’antichità) è stato difficile per le donne avere libero accesso all’istruzione, agli strumenti, ai finanziamenti necessari per fare ricerca.
Nei paesi in cui per esempio c’è una cultura che associa al pensiero matematico e al pensiero scientifico caratteristiche femminili si ha una partecipazione numericamente opposta, a ulteriore riprova che si tratta di un problema culturale.
La scarsità di modelli alimenta una scarsa partecipazione a quel campo perché una donna, vedendolo poco popolato di sue consimili, pensa che non sia adatto a lei. Questo è un circolo vizioso che va spezzato, perché nella realtà dei fatti non sono state poche le donne che hanno fatto le scienziate: sono invece state poche le possibilità date alle donne per fare le scienziate e questo cambia tutto.

Non possiamo essere tutti Albert Einstein o Marie Curie. Per i ragazzi, questo non sembra essere un problema, eppure sembra dissuadere molte ragazze dagli studi e dalle carriere scientifiche. Perché?
La scarsità di modelli provoca anche un altro effetto sgradevole: l’idea che tu, in quanto donna, o sei una clamorosa eccellenza o non hai speranze. Questo effetto negativo è dovuto al fatto che quelle poche donne che emergono sono effettivamente delle grandissime. E allora giustamente chi comincia o ha idea di cominciare un certo percorso pensa di non avere speranze se non è fenomenale, perché le uniche donne che conosce in questo campo sono grandissime eccellenze. L’aver dato poche possibilità a molte donne genera la scarsità di medietà: non esiste un valore medio. Sono molto poche le ragazze che decidono di voler fare le ricercatrici per il solo piacere di fare ricerca, anche se non pensano di avere speranze di vincere il Nobel, perché appunto la scarsità di modelli “normali”, “medi”, professionalmente adeguati ma non eccellenti, più raggiungibili e vicini, ha come contro effetto anche questo: pochissime ragazze la immaginano come una carriera che non brillerà, ma sarà una divertente e felice carriera in un campo che piace. Questa cosa invece per molti uomini è assolutamente valida.
Conta anche un altro un altro fatto: credo che facciamo ancora un racconto sociale piuttosto distorto del lavoro scientifico. Chi lo fa, sa benissimo che è un lavoro d’equipe. Ma questo viene raccontato molto poco: l’immagine sociale è ancora quella dello scienziato geniale che da solo, nell’anfratto del suo laboratorio o nella sua cantina, tira fuori un’idea geniale che poi condiziona il lavoro di tutti gli altri. Questa immagine, per quanto romantica e affascinante, è sbagliata, perché non si lavora più così: si fa invece un lavoro di equipe, un lavoro nel quale tutto quello che si fa è continuamente confrontato e discusso con altri e altre, un lavoro nel quale ci si organizza insieme in vista di un obiettivo. Ma se non raccontiamo questo, di nuovo diffondiamo un’immagine che poi impedisce a molti e soprattutto a molte di immaginarsi in quel ruolo, in quell’ambito, in quel settore, in quella carriera.

Però in ambito di ricerca scientifica c’è anche molto lavoro individuale e competitivo.
La competitività di per sé non è un valore negativo. Lo diventa quando, per vincere questa competizione, si usano agonisticamente pregiudizi, valutazioni, stereotipi che non c’entrano con la cosa su cui si sta competendo. Per quanto un ricercatore possa pensare di essere elitariamente fuori da certi discorsi, sicuramente gli sarà capitato di pensare che il lavoro di una collega sia più apprezzato perché la collega porta gonna, calze e tacchi; gli sarà capitato di pensare che quella collega è inaffidabile perché è bionda e quindi non sarà capace di certi ragionamenti complessi. Questo accade a causa di stereotipi e pregiudizi di genere che inevitabilmente noi ci portiamo anche sul luogo di lavoro, per quanto questo possa essere elitario o possa essere considerato al di fuori di certi argomenti, queste cose accadono anche lì e portano danni al lavoro collettivo di tutti e di tutte.

Quindi come affronteresti la questione dell’equità di genere in un ambiente di lavoro, anche scientifico?
Far vedere che questi comportamenti esistono e agiscono è il passo iniziale per togliere certi poteri dagli ambienti di lavoro, anche negli ambienti di ricerca.
L’obiettivo è fare sì che non esistano nel luogo di lavoro quelle cose che fanno perdere tempo, perdere concentrazione, perdere potere decisionale, per dover stare attenti a come si è vestiti, alla frase detta, al pensiero espresso.
Quando sai che nel tuo gruppo di lavoro c’è qualcuno o qualcuna che non può non pensare a come è vestito o vestita oggi, perché ci sarà un certo numero di colleghi che glielo farà notare, vuol dire che quella persona deve perdere tempo prima, dopo e durante il lavoro a pensare ai suoi vestiti, assorbendo energie a pensare a cose che con il lavoro non hanno niente a che fare. E se queste cose accadono soprattutto a chi è di un genere e meno a chi è dell’altro, la valutazione di questi aspetti crea disparità.
Tutte cose che vanno espulse dal luogo di lavoro soprattutto cambiando le proprie abitudini linguistiche, le proprie abitudini gestuali, il modo in cui si fa riunione, il modo in cui si presentano i lavori.
Un’altra delle cose che io faccio sempre notare è che nei luoghi di lavoro capita spesso che gli uomini interrompano le donne. Ci sono test che mostrano come, in situazioni di discorso collettivo tra pari, sono gli uomini a dire alle donne: ah, sì questa cosa la sappiamo, va bene, questo lo vediamo dopo, oppure sì, questa cosa si era capita, andiamo avanti adesso. Queste frasi distruggono qualsiasi ambiente di lavoro, perché stanno insegnando a qualcuno, anzi in genere a qualcuna, a stare in silenzio. E se in un ambiente di lavoro qualcuna non esprime le sue idee, non fa parte del lavoro collettivo, trova difficoltà a enunciare quello che sta facendo e come lo sta facendo, tutto l’ambiente di lavoro ne risulta danneggiato perché si spreca una risorsa, si zittisce una possibile fonte di incremento qualitativo del lavoro di tutti e di tutte.

A proposito di questo, l’anno scorso, sempre nel mese di febbraio, abbiamo commentato il libro Inferiori di Angela Saini, che passa in rassegna come la scienza stessa non sia priva del pregiudizio e della convinzione profonda del fatto che le donne possano essere in qualche modo inferiori all’uomo.
Quel libro dimostra che, quando la scienza si illude di essere superiore alla cultura o al potere sociale imperante in quel momento, fa danni. Quando c’è una cultura che spinge per avere le prove per esempio della superiorità maschile, queste prove cominciano a uscire. Questo dovrebbe far capire quanto la scienza debba stare attentissima in realtà agli strumenti che usa e alle cose di cui si occupa perché potrebbe essere facilmente al servizio di una pesante distorsione sociale.
Il problema non è che qualcuno vuole negare che ci siano differenze tra uomini e donne. La questione è il valore sociale che diamo a quelle differenze, perché io non solo non so o comunque non mi interessa se il cervello di una donna funziona in maniera differente dal mio e se sia più adatto o pronto o particolarmente sviluppato per alcuni problemi o alcune situazioni rispetto ad altre. A me importa che, in virtù di queste differenze, la sua collaborazione alla risoluzione di alcuni problemi, anche scientifici, sia alla pari con la mia. Proprio perché è differente, direi che è necessaria la sua compartecipazione. La condizione necessaria per lo sviluppo scientifico sono sempre state le differenze, il saper cambiare paradigma, il saper cambiare punto di vista, il saper essere pronti a modificare le proprie ipotesi di partenza. Ben vengano quelle ricerche che ci dicono che c’è una differenza tra i generi. Il problema che ci dobbiamo porre è che cosa ci facciamo con queste differenze, che valore gli diamo. Se le mettiamo in una gerarchia per dire che qualcuno è migliore di qualcun altro, non solo non stiamo facendo un bel servizio alla scienza, non lo stiamo facendo in nessun senso alla società tutta. Dicendo che a una certa cosa ci possono lavorare soltanto le persone di un certo genere, si sta agendo socialmente maniera molto grave, escludendo qualcuno o qualcuna da un ambito che forse gli spetta, da un ambito nel quale potrebbe essere di grande aiuto, da un ambito nel quale potrebbe essere forse indispensabile e questo è un grave danno.

Riportiamo di seguito una breve bibliografia sul tema, consigliata da Lorenzo Gasparrini:

  • M. Manera, La lingua che cambia, Eris
  • G. Pacilli, Uomini duri, Il Mulino
  • C. Volpato, Psicosociologia del maschilismo, Laterza
  • S. Ciccone, Maschi in crisi?, Rosenberg&Sellier
  • G. Priulla, La libertà difficile delle donne, Settenove

La preparazione delle domande per l’intervista è stata frutto di un bel lavoro condiviso del Gruppo per l’inclusione della didattica e divulgazione dell’INAF.

Add Comment

Click here to post a comment

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Scritto da

Stefania Varano Stefania Varano

Istituto di Radio Astronomia, Bologna

Categorie