I nostri smartphone possiedono fotocamere sempre più evolute. Agli appassionati di astronomia non sono sicuramente sfuggiti come alcuni di questi dispositivi, posseggano delle funzionalità che permettono l’acquisizione di immagini della volta celeste attraverso l’applicazione di settaggi in automatico (e lunghe esposizioni) per i quali è necessario alle volte il supporto di uno stativo. A proposito, tempo addietro abbiamo pubblicato una guida per l’acquisizione di immagini del cielo stellato, anche se non si ha uno smartphone di ultima generazione. Ma come siamo arrivati a poter ottenere immagini di una qualità più che buona, semplicemente con dei telefoni?
Lo spiega l’astronomo Phil Plait sulla rivista Scientific American, che sottolinea come avvicinando uno smartphone all’oculare di un telescopio anche rivolto agli appassionati, si possono ottenere immagini che pochi decenni fa si potevano solamente sognare. Ma è proprio grazie agli astronomi che ciò è stato reso possibile, i quali hanno sviluppato e realizzato le capacità delle fotocamere digitali.
La storia inizia più di 60 anni fa. Benché le immagini analogiche ottenute fino ad allora possono resistere per anni (anzi, secoli) senza correre il rischio di essere cancellate per errore o corrotte in caso di un danneggiamento del supporto di memoria su cui invece sono conservate le digitali, il processo che portava allo sviluppo delle astrofotografie è arduo e laborioso. Senza contare inoltre che la misurazione della luminosità di un oggetto attraverso lo sviluppo, non è poi così precisa. Questo perché i granelli di sostanze chimiche reattive alla luce, in grado di produrre le immagini, non sono abbastanza sensibili.
Nella seconda metà del Novecento, gli ingegneri dei Bell Labs hanno scoperto che un particolare tipo di semiconduttore(1)Il metal–oxide–semiconductor, metallo-ossido-semiconduttore – NdR può essere utilizzato per rilevare la luce e registrare il valore della luminosità di un oggetto: nascevano così i sensori a trasferimento di carica (CCD, Charge-Coupled Device). Ad inventarli i ricercatori Willard Boyle e George E. Smith.
Questi strumenti in principio venivano utilizzati per migliorare le tecnologie di imaging nelle missioni spaziali. Essi erano in grado di convertire la luce in segnali elettronici con alta efficienza e precisione. La NASA ha adottato poi questa tecnologia per migliorare le capacità di osservazione. Non solo. I vantaggi del digitale avrebbero allora permesso di convertire in numeri la luce impressa sul sensore digitale, elemento che facilita la possibilità di elaborare calcoli matematici che una fotografia analogica non potrebbe fare. Un contributo fondamentale per studiare in modo più approfondito l’Universo, grazie al quale è stata scoperta l’energia oscura.
Questi sensori, oggi, sono per esempio utilizzati dallo specchio del telescopio spaziale James Webb. Grazie a essi è quindi possibile scoprire nuovi margini dell’Universo, nonché la nascita di “nuove” galassie, datate miliardi di anni. Per arrivare ai sensori degli smartphone, però, il lavoro della NASA è stato fondamentale. Grazie a essa è stato possibile avviare il processo di miniaturizzazione di questi sensori. Peso e dimensioni delle apparecchiature andavano ridotti, pur senza sacrificare la qualità delle immagini. La ricerca finanziata dalla NASA ha portato ai sensori CMOS, più efficienti ed economici dei CCD. E sono proprio i sensori CMOS che sono i più presenti sui nostri smartphone. Grazie alla loro dimensione ridotta e alla capacità di integrarsi agli altri elementi, sono approdati sui nostri dispositivi mobili (e non solo). Una cosa apparentemente normale, ma l’astronomo Phil Plait la definisce in questo modo: una rivoluzione astronomica. Una rivoluzione che permette di acquisire astrofotografie in brevissimo tempo e in modo semplice, anche grazie all’aggiunta di software adatti allo scopo. E tutti possono ottenere astrofotografie dal proprio smartphone: basta seguire un tutorial giusto e sperare in una favorevole condizione metereologica.
Ecco, forse la sfida più complessa ora è proprio questa.
Note
↑1 | Il metal–oxide–semiconductor, metallo-ossido-semiconduttore – NdR |
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