Cronache dalla scuola Gli Astroviandanti

Esploratori dell’ignoto

Elena Barosso, partendo dal resoconto di una conferenza con Maurizio Cheli, Roberto Ragazzoni, Monica Lazzarin, riflette sul senso dell'esplorazione in generale e dello spazio in particolare.

Aggiornato il 19 Maggio 2020

Da sinistra a destra: Maurizio Cheli, Roberto Ragazzoni, Monica Lazzarin – via INAF – Osservatorio Astronomico di Padova

Verso metà Luglio ho avuto modo di partecipare ad una conferenza tenutasi a Palazzo Bo’ a Padova, che ha visto come protagonisti di una tavola rotonda Maurizio Cheli, astronauta italiano, e Monica Lazzarin, professoressa all’Università di Padova; l’incontro è stato moderato da Roberto Ragazzoni, direttore dell’INAF di Padova.
L’evento mi ha dato uno spunto interessante su cui rifletto spesso, ovvero: quando si parla di esplorazione, cosa ci viene in mente?
Devo essere sincera, una delle prime cose a cui penso è Esplorare il Corpo Umano, in casa devo avere ancora da qualche parte i VHS. Oppure penso alle passeggiate nei boschi, quelle con i sentieri ripidi e insidiosi; mi viene in mente anche Palomar, di Italo Calvino: un osservatore attento che guarda ai più piccoli dettagli per scoprire una logica che possa spiegare tutto ciò che vede. Provando a dare una definizione del termine esplorazione, io direi che è un modo di guardare qualcosa di sconosciuto; una tendenza ad andare oltre ciò che si sa, di spingere sempre più in là i confini della conoscenza e di trovarvi una logica. Tutto sommato esploriamo in continuazione, anche solo vivendo e immaginando come sarà il futuro di ciascuno di noi, territorio ancora inesplorato e verso cui il tempo ci guida tenendoci ben stretti.
Ora, a mio parere si possono distinguere due tipi di esplorazione: quella dell’ambiente esterno e quella della propria interiorità, entrambi insidiosi da conoscere appieno. Ed è proprio dentro di noi che troviamo una giustificazione al termine esplorazione. Seneca ci dice che: “Curiosum nobis natura ingenium dedit“, ovvero: “L’uomo è per sua natura assetato di conoscenza“. Insomma, quello che abbiamo non ci basta mai, ed è giusto che così sia. E questa tendenza assume varie forme, concretizzandosi anche in un’esplorazione particolare, quella spaziale.
L’esplorazione spaziale a mio parere viene portata avanti su più piani: c’è chi esplora rimanendo a Terra, per esempio studiando i dati raccolti da sonde, telescopi, etc… Di questa categoria, se si può chiamare in questo modo, fa parte Monica Lazzarin: lei infatti studia i corpi minori – non per importanza ma per dimensioni – del Sistema Solare; sono importanti perché alcuni conservano intatto il materiale primordiale, permettendoci quindi, studiandoli, di fare un salto indietro nel tempo di 4,5 miliardi di anni, fino all’epoca in cui George R.R. Martin ha pubblicato il primo capitolo de Le cronache del ghiaccio e del fuoco, per capirci.
E poi c’è chi invece nello spazio ci va sul serio. Maurizio Cheli, astronauta e pilota, ha trascorso circa 15 giorni dello spazio. Quella che ha potuto fare Cheli è stata anche un’esplorazione del diverso comportamento che gli oggetti e le sostanze presentano in condizioni di microgravità, e anche di se stesso, ovvero come reagisce il proprio corpo a quelle stesse condizioni. Per fare un esempio, in assenza di gravità i muscoli tendono ad atrofizzarsi, e per questo è necessaria ogni giorno un po’ di attività fisica con particolari attrezzature, cosa che fa parte della quotidianità degli astronauti che si trovano sulla Stazione Spaziale Internazionale.
È curioso pensare come due professioni così diverse si possano entrambe ricondurre alla sfera temporale. Mentre Monica Lazzarin viaggia nel passato e studia quali siano state le cause che hanno portato alla formazione della Terra e quindi della vita, Maurizio Cheli invece studia gli effetti che lo spazio ha su di lui per poter permettere all’umanità, in futuro, di andare sempre più lontano. Tutto sommato Søren Kierkegaard non sarebbe troppo contrario a questa prospettiva, scrivendo in uno dei suoi diari che:

È proprio vero quel che dicono i filosofi: “La vita va compresa all’indietro”. Ma non bisogna dimenticare l’altro principio, che “si vive in avanti”.

C’è un autore, Ray Bradbury, che vorrei citare. Alla domanda di Oriana Fallaci: “Noi abbiamo bisogno di aria per respirare, di acqua per bere, noi soffriamo senz’aria e senz’acqua: allora perché andare, perché?“, lo scrittore rispose:

Ray Bradbury nel 1975 – via commons
Per la stessa ragione che ci fa mettere al mondo i figli. Perché abbiamo paura della morte, del buio, e vogliamo vedere la nostra immagine ripetuta e immortale. Non vorremmo morire: però la morte esiste e, poiché esiste, partoriamo figli che partoriranno figli, all’infinito, e questo ci regala all’eternità. Non dimentichiamolo: la Terra può morire, può esplodere, il Sole può spegnersi, si spegnerà. E se il Sole muore, se la Terra muore, se la nostra razza muore con la Terra e col Sole, allora ciò che abbiamo fatto fino a quel momento muore. E muore Omero, e muore Michelangelo, e muore Galileo, e muore Leonardo, e muore Shakespeare, e muore Einstein, e muoiono tutti coloro che non sono morti perché noi viviamo, perché noi li pensiamo, perché noi li portiamo dentro e addosso. E allora ogni cosa, ogni ricordo, precipita nel buio con noi. Salviamoli, dunque, salviamoci. Prepariamoci a scappare, scappiamo per continuare la vita su altri pianeti, per ricostruire su altri pianeti le nostre città: non saremo a lungo terrestri! E se davvero temiamo il buio, se davvero lo combattiamo, allora, per il bene di tutti, prendiamo i nostri razzi, abituiamoci al gran freddo, al gran caldo, all’acqua che non c’è, all’ossigeno che non c’è, diventiamo marziani su Marte, vesuviani su Venere, e quando anche Marte morirà, quando anche Venere morirà, andiamo in altri sistemi solari, su Alfa Centauri, ovunque riusciremo ad andare, e scordiamo la Terra. Scordiamo il nostro sistema solare, scordiamo il nostro corpo, la forma che aveva, queste braccia queste gambe questi occhi, diventiamo non importa come, diventiamo licheni, insetti, sfere di fuoco, non importa cosa, importa solo che in qualche modo la vita continui, e con la vita continui la coscienza di ciò che fummo e facemmo e imparammo: la coscienza di Omero, la coscienza di Michelangelo, la coscienza di Galileo, di Leonardo, di Shakespeare, di Einstein! E il dono della vita continuerà in eterno.

È quindi vero che si vive in avanti, che ampliando sempre di più le nostre conoscenze potremo forse assicurare alla vita l’eternità, ma ora non dimentichiamoci del passato. Non dimentichiamo chi siamo, da dove veniamo, proprio perché la prospettiva di un futuro trasloco è ancora lontana, e non permettiamo che ci faccia dimenticare l’importanza della nostra casa.
Concludo dicendo che Cheli sottolineava come, in sette astronauti che erano sullo Shuttle, si prendessero tutti cura minuziosamente della loro navicella, unica loro fonte di vita. Ecco noi, in più di sette miliardi, dovremmo cercare di fare lo stesso con la nostra navicella, anche se un po’ più grande.

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