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Equità di genere: dalle parole alle azioni

La seconda parte dell'intervista a Lorenzo Gasparrini, con alcuni spunti per mettere in pratica un'equità vera e per affrontare la questione anche con i giovani.

Aggiornato il 16 Novembre 2022

Il mese scorso, in occasione della Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza, abbiamo parlato con Lorenzo Gasparrini, filosofo e formatore femminista, di equità in ambito scientifico.
La scienza è parte della nostra cultura, ne è una manifestazione e ne rispecchia i limiti, le difficoltà e le contraddizioni. Per questo, parlando di accesso equo alla cultura scientifica, è stato naturale trovarsi a discutere di equità di genere in contesti culturali e sociali anche più ampi, quelli in cui si trovano le radici dei nostri comportamenti e dei nostri pregiudizi.

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di Ivania Maturana
Oggi, in occasione dell’8 marzo, Giornata internazionale dei diritti della donna, un’altra di quelle date in cui il mondo si ritrova a parlare di equità di genere, vi riportiamo la seconda parte dell’intervista, in cui sono emersi anche alcuni spunti di azione concreta. Perché continuare a parlarne è giusto, ma non basta, come dicevamo: Quello della parità è un discorso condiviso. Il problema è che rimane un discorso, perché quando dall’esistenza di pari diritti si passa alla questione più complessa dell’esercizio di pari diritti, comincia la difficoltà.

Perché è così difficile trasformare i discorsi sull’equità di genere in azioni che la realizzino, questa equità?
Perché quando cerchi di mettere mano al problema e risolverlo fattivamente ti scontri con qualcosa di cui invece non hai ancora parlato: per esempio il fatto che “parità di diritti” non significa rinunciare a qualcosa. Non sono io che devo cedere dei diritti a te che ne hai di meno o rinunciare a qualche cosa perché è più giusto darla a te. Si tratta di allargare lo spazio. Questo è un concetto molto complicato, perché moltissimi uomini invece avvertono immediatamente una perdita di diritti, di possibilità, di potere. Ma non si tratta di una perdita, è lo spazio che si allarga e le possibilità aumentano per tutti: in realtà è una ricchezza. Questo è difficile da far capire perché rompe tantissime abitudini consolidate nella vita di ciascuno.

Capita a volte che le donne stesse assumano atteggiamenti negativi verso chi s’impegna a far valere i propri diritti, come se fosse una pretesa assurda anziché la normalità.
Perché qualcuno pensa che alcuni diritti siano privilegi. E lo pensa anche se donna, perché non ha ben chiara l’idea di che cosa è un diritto e che cos’è un privilegio. Se esercitare il tuo diritto qualcuno lo scambia per un privilegio c’è qualcosa che non va socialmente. È un bruttissimo sintomo: vuol dire che non abbiamo proprio chiaro che cosa sono i diritti e cosa sono i privilegi. Eccolo il problema di cui stiamo parlando: non ci sarà mai parità, finché qualcuno, indipendentemente dal suo genere, non sa distinguere un diritto da un privilegio.

Anche in ambito scientifico e accademico, c’è chi dice di essersi stufato di sentire parlare di equità. E chi invece ha paura di sbagliare perché le regole del gioco sembrano troppo complicate: cosa dire, cosa non dire, cosa fare, cosa non fare…
La prima idea sbagliata è quella che ci sia qualcosa da dover fare. L’unica cosa che si deve fare è chiedere il consenso, chiedere espressamente a una persona come vuole essere nominata, come vuole essere chiamata, banalmente, cioè esplicitare queste difficoltà, parlarne. Questo crea poi abitudini condivise e non offensive o sgradite per qualcuno. Tutto qua. Tutto semplicemente qua. Non c’è nessuna regola da seguire perché non esiste un ente supremo che ha deciso come ci si regola col linguaggio o col vestire per essere rispettosi di genere: non è mai esistito, non esiste. È una richiesta che viene dal basso, da sempre più persone che chiedono se non altro di essere considerate. Quindi l’unica abitudine da prendere è quella di chiedere come vuoi essere chiamata?, cosa ti rende più gradevole questo ambiente?, cosa preferiresti che ci fosse o che non ci fosse?. E questo vale per il linguaggio come per il vestire come per le abitudini, come per i gesti come qualunque cosa. Chiediamo espressamente cosa gradisce l’altro, cosa l’altra, cosa vuole, come vuole essere chiamata, come vuole essere trattata. Tutto qua. E questa però è un’abitudine difficile da prendere perché non l’abbiamo mai fatto prima: questa è una grande difficoltà, ma non ci sono regole da seguire, non c’è un regolamento complesso. È una sola, semplice abitudine da prendere. Molto difficile.

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Forbice delle carriere accademiche dell’accademia italiana (Dati MIUR, 2018; Elaborazione Picardi 2020).

“Equità for dummies”: c’è qualcosa che ciascuno di noi può fare, anche nel suo piccolo, senza scoraggiarsi e demandare tutto a cambiamenti rivoluzionari dei massimi sistemi, auspicabili ma purtroppo lenti e difficili?
Allora, eliminiamo questa idea sbagliata dalle nostre teste: i problemi sociali (e questo della parità è un problema sociale) si risolvono socialmente, quindi è proprio indispensabile che ciascuno cambi. Non è vero che non cambia nulla. Cambia quando ciascuno comincia a cambiare le proprie abitudini, è l’unica soluzione. Qualunque forzatura dall’alto sarà sempre presa come una forzatura dall’alto e quindi non cambierà effettivamente la situazione, e ci troveremo di nuovo soggiogati a una qualche forma di potere e quindi sostanzialmente il paradigma non cambierà. Le cose cambiano quando ciascuno si impegna a cambiare una piccola abitudine nella sua vita quotidiana.

In questo senso, cosa sono per te le quote rosa? Una soluzione, un palliativo, un’ingiustizia (in termini di merito)? Un intervento odioso ma necessario? E soprattutto, utile?
Innanzitutto ricordiamoci che soltanto nel nostro paese si chiamano “quote rosa”. Nel resto del mondo si chiamano “quote di genere” e già questo ci dovrebbe far capire tante cose.
In senso assoluto, se ci fossero già pari possibilità di intraprendere una carriera, le quote rosa sarebbero una evidente ingiustizia. Perché qualcuno dovrebbe essere privilegiato per il suo genere? È evidente che è un metodo di per sé sbagliato. Di nuovo, quello che si racconta male (molto male) socialmente è che si tratta di uno degli strumenti che si devono usare per raggiungere una effettiva parità rappresentativa in un settore. Devi mettere una quota che salva un valore minimo necessario affinché esista una parità, ma poi devi agire alla base del percorso, all’inizio del percorso. La quota arriva alla fine: all’inizio devi fare sì che aumentino le possibilità per tutti i generi che vogliono partecipare al percorso. Noi siamo ancora un paese che racconta a tante bambine che certi lavori, certi ambiti di studio, certi settori non sono adatti a loro perché sono bambine. Se non elimini questo è chiaro che, più avanti, la quota verrà sempre vissuta come una evidente ingiustizia, perché tu stai continuando a forzare il sistema a produrre qualcosa che non è entrato nel sistema. La quota deve funzionare insieme a un aumento delle possibilità in entrata, allora dopo un po’ abbandonerai la quota, perché non ne avrai più bisogno. Ma se non agisci anche all’inizio del percorso formativo, la quota di per sé non ti dà alcun risultato, anzi alla lunga viene ovviamente vissuta come un’ingiustizia, oppure peggio ancora crea una sorta di ghettizzazione, di recinto nel quale metti per forza rappresentanti di un certo genere, indipendentemente dalla loro qualità. E questo è un effetto molto grave. Le quote sono necessarie per cominciare a correggere la distorsione paritaria, ma devono funzionare insieme ad altri strumenti: da sole non ti danno la parità. Non te la daranno mai.

I giovani in età scolare sembrano più sereni degli adulti rispetto a questioni legate alla diversità. Non hanno pregiudizi, non li subiscono, o forse non li vedono? Magari neanche noi li vedevamo alla loro età e c’è un momento in cui qualcosa si è rotto?
Proprio perché le questioni sociali sono anche estremamente complesse, dobbiamo fare pace con un altro dato di fatto: ogni generazione, così come anche ogni ambiente culturale, ogni segmento della nostra società vive queste pressioni in maniera diversa. Anche io ho a che fare con ragazzi molto giovani nelle scuole e mi accorgo che alcuni problemi relativi alle questioni di genere sembrano del tutto superati, ormai inesistenti. Come ti vesti, come ti presenti, cosa ti piace, cosa non ti piace: non frega più a nessuno, non è più un problema, ma certi altri problemi rimangono. Sono trasformati ma rimangono. Per esempio è molto forte ancora in ragazzi e ragazze molto giovani l’idea che il possesso, la gelosia e il controllare la vita di un altro siano indice di forti sentimenti, quindi apprezzano forme di controllo nelle relazioni affettive., Il che è una cosa invece molto, molto discutibile e a tratti pericolosa.
Ogni generazione vive queste problematiche in maniera diversa. Non bisogna illudersi che semplicemente il passare del tempo cambi queste situazioni, perché le forme di potere si trasformano quindi quella cosa che per te sembra superata non la vedrai ripresentarsi allo stesso modo in chi è più giovane di te ma sai che in qualche modo c’è, lì, latente, pronta a ripresentarsi. Bisogna stare attenti a cogliere in che forma si ripresenta.
Per quanto riguarda il modo in cui questi stereotipi hanno influenzato anche noi da piccoli, è molto più frequente che non siano stati riconosciuti, più che non siano esistiti. E non averli riconosciuti può avere comunque avuto un effetto benefico. Magari non sono arrivati o sono arrivati in forma debole, si sono trasformati sì, ma che non siano proprio esistiti lo trovo difficile. Il che non deve rendere ciascuno e ciascuna ansiosi o colpevoli di qualche cosa. È un condizionamento sociale e quindi va accettato più o meno come la pioggia. Apriamo gli ombrelli e cerchiamo di farci qualche cosa.

Anche noi lavoriamo molto con gli studenti nelle scuole per offrire loro accesso (il più possibile equo) alla cultura scientifica e possibilità di sperimentarla loro stessi. In questo caso, come dicevamo, servono i modelli femminili, soprattutto modelli “normali” e non eccezionali, ma bastano? Pensi che si possano eliminare gli stereotipi, anche inconsci e anche sulla scienza, a cui tutti siamo un po’ soggetti sin da piccoli? E come?
La parola chiave che uso non è normalità, è possibilità. Lo stereotipo lo combatti quando fai vedere che in realtà è inefficace. Lo stereotipo funziona, è quello il problema, rimane vivo nella società perché funziona, perché in effetti ti dà delle soluzioni. Bisogna dare più possibilità per far vedere che esistono altre soluzioni, esistono altre strade che sono efficaci allo stesso modo. In questo modo lo stereotipo perde di valore, non è più efficace, quindi sarà abbandonato perché tanto non funziona o comunque funziona allo stesso< modo di una cosa che per me è più piacevole, quindi scelgo l'altra, non lo stereotipo.
Le lotte sociali sono un po’ come le lotte contro una sostanza tossica, contro un virus (so che il paragone di questi tempi è molto sgradevole) che circola: a ciascuno colpisce in maniera diversa e non sempre l’antidoto o il vaccino che va bene per uno va bene anche per l’altro. Nessuno è in trincea: magari ci fosse questa linea di demarcazione così netta, con la quale è facile decidere chi sta di qua e chi sta di là. Non è così. Quella persona che in un ambito può essere particolarmente corretta, in un altro non lo è. Per esempio, molti uomini che sono le persone più corrette, oneste e limpide sul luogo di lavoro, a casa esercitano un potere opprimente, o anche il contrario. Non è facile trovare queste linee di demarcazione. Ecco perché è indispensabile un discorso continuo e sociale su questi argomenti: per riconoscere tutte le volte che si presentano. Il confronto con le altre persone serve esattamente a questo.

Un’ultima cosa. Quando ci siamo conosciuti, ti ho detto: scelgo di intervistare te e perché sei uomo e perché nel nostro ambito (e forse anche in altri) questa cosa è utile e funzionale. Non dovrebbe cambiare niente se le cose che si dicono sono le stesse, però cambia.
Sì, non sono molto contento di questo ma devo ammettere, per quella che è la mia esperienza, che questo cambia eccome: lo vedo per esempio quando vado in una scuola o in un’associazione. Per il solo fatto che sono io a dire le stesse cose che direbbe una mia amica, una mia collega, una persona che conosco che si occupa di questi stessi temi, vengono più persone, suscito più curiosità: anche questo fa parte del privilegio maschile. Questo non significa che sono più efficace perché comunque io mi rivolgo non a chi già sa queste cose ma a chi non le sa. Rimane il fatto che non posso negare che il fatto di presentarmi così, cioè con questo corpo, dà un peso diverso alle mie parole. E questa è anche la prova che questa disparità di genere di cui stiamo parlando esiste tuttora e funziona, perché altrimenti io non sarei così efficace.

Vi ricordiamo la breve bibliografia sul tema consigliata da Lorenzo Gasparrini:

  • M. ManeraLa lingua che cambia, Eris
  • G. PacilliUomini duri, Il Mulino
  • C. VolpatoPsicosociologia del maschilismo, Laterza
  • S. CicconeMaschi in crisi?, Rosenberg&Sellier
  • G. PriullaLa libertà difficile delle donne, Settenove

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Scritto da

Stefania Varano Stefania Varano

Istituto di Radio Astronomia, Bologna

Claudia Mignone Claudia Mignone

Astrofisica e comunicatrice scientifica, tecnologa all'Istituto Nazionale di Astrofisica.

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