Aggiornato il 28 Novembre 2024
Torna, dopo una breve pausa, Universo Mondo, la rubrica di EduINAF che ci porta in giro intorno al globo alla scoperta di progetti di divulgazione, didattica, scienza e società . E riparte proprio dal nostro paese, l’Italia. Ispirati dalla figura di Margherita Hack, di cui questo mese si celebra il centenario dalla nascita, approfondiamo il tema delle donne nella scienza con Ilenia Picardi, fisica e ricercatrice in sociologia presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, dove si occupa di studi sociali sulla scienza e la tecnologia e sulla dimensione di genere nella ricerca e nell’accademia.Come di consueto in questa rubrica, partiamo dal tuo percorso. Dalla fisica alla sociologia: cosa ti ha portato fin qui?
Sono arrivata qui dopo un dottorato in fisica, attraverso un percorso non lineare, come in realtà sono quasi tutti i percorsi di carriera, che vengono idealizzati come dei percorsi lineari, nella migliore ipotesi dal basso verso l’alto, ma ogni percorso nasconde molte deviazioni, ritorni, storie. I percorsi veri delle persone sono molto più interessanti di quelli schematizzati dalle teorie!
Durante il dottorato in fisica, nel campo delle astro particelle, mi sono occupata di neutrini nei processi stellari: cercavamo di capire in che modo la produzione di neutrini può influenzare l’evoluzione delle stelle. Già negli anni dell’università e del dottorato ero molto interessata a una serie di questioni sociali e impegnata in una serie di attività nel sociale, quindi dopo il dottorato avevo deciso che questa spinta per me era molto forte. Io amo profondamente la scienza "“ la fisica in particolare e la scienza in generale "“ ma amo molto la dimensione culturale e sociale della scienza, quindi ho preferito dare spazio a questi aspetti anzichè impegnarmi in altri ambiti specialistici della ricerca.
Dopo il dottorato, ho frequentato un Master in comunicazione scienza presso la SISSA di Trieste, e già allora mi offrirono la possibilità di lavorare alla SISSA. Mi trasferii da Napoli a Trieste, dove ho vissuto per vari anni, lavorando nel campo della comunicazione della scienza. Sempre seguendo percorsi tutt’altro che lineari, sono tornata a Napoli, collaborando dapprima con Città della Scienza e poi tornando all’Università , lavorando su dei progetti europei di arte e scienza.
Come è stato reinventarsi in un campo di ricerca completamente nuovo?
Tornata all’università , avevo un pensiero molto chiaro: volevo approfondire la questione di genere nella scienza, quella che all’epoca chiamavo la tematica “donne e scienza". Me ne ero occupata già prima, ma non a livello adeguatamente approfondito. C’era una call di progetti europei FP7 e, dal nulla, decisi di lavorare a una di queste call. Sono stata molto fortunata perchè incontrai dei partner che non conoscevo, una coordinatrice molto brava: si costituì il consorzio, scrivemmo il progetto e lo vincemmo. L’Università Federico II era l’unico partner italiano di questo consorzio, formato da sette università di diversi paesi europei, e l’obiettivo era lavorare sul Gender Equality Action Plan: un piano d’azione sull’uguaglianza di genere.
Questa è stata per me l’opportunità di approfondire queste tematiche: per individuare le azioni più adatte per sostenere le carriere delle donne nella ricerca e nell’accademia, ho cercato di capire quali erano i meccanismi che determinavano i processi di esclusione. Contemporaneamente ho iniziato a occuparmi di studi sociali sulla scienza e la tecnologia, che erano una delle molle principali che mi hanno spinto a lasciare la fisica. In questo periodo ho preso anche un secondo dottorato, proprio sulle questioni di genere nell’accademia, e così è iniziato questo mio secondo percorso all’interno dell’università , su un altro binario, quello della sociologia, però sempre molto legato alla dimensione scientifica.
Di cosa tratta la tua ricerca attuale e cosa rappresenta la questione di genere nel tuo lavoro?
Mi occupo di studiare i processi di produzione di conoscenza, che sono dei processi anche sociali. Per me, la questione di genere fornisce una prospettiva, per cui su qualunque tematica c’è sempre una riflessione legata al genere, che può essere più o meno rilevante a seconda dell’oggetto di studio specifico. Ad esempio, in questi anni ho lavorato a un progetto sulle cosiddette “conoscenze scientifiche rifiutate” "“ conoscenze che si propongono come scientifiche ma che non sono riconosciute come tali dalle istituzioni. In poche parole, le fake news scientifiche. Abbiamo studiato i meccanismi che portano le persone prima a legittimare delle conoscenze alternative alla scienza e poi a sostenerle, a credere a questo tipo di conoscenze. Questa tematica non è legata nello specifico al genere, però all’interno di alcuni casi di studio vediamo che la questione di genere emerge come caso rilevante.
Prima hai accennato ai meccanismi che determinano i processi di esclusione delle donne nella ricerca e nell’accademia. Potresti darci un quadro di questa esclusione in Italia?
Per un lavoro di ricerca in corso, insieme a una collega abbiamo analizzato i dati più recenti disponibili sul sito del Ministero dell’Università e della Ricerca, quelli relativi al 2020, guardando alla presenza femminile nei diversi stadi di carriera: da quella iniziale di assegnista di ricerca, procedendo poi a ricercatore a tempo determinato di tipo A e B, ricercatore a tempo indeterminato, professore di seconda fascia e infine professore di prima fascia, ordinario. Mettendo insieme i dati di tutta l’Università italiana, vediamo che esiste una “quasi parità ” a inizio carriera: nella posizione di assegnista di ricerca abbiamo un 50% di uomini e 50% di donne.
Quello che vediamo poi è l’aprirsi di una forbice in corrispondenza della fase di reclutamento accademico, quindi i problemi non iniziano avanti nella carriera ma proprio all’inizio, nel passaggio dal precariato alla stabilizzazione. Questo è il passaggio più significativo all’interno della carriera, quello che decide chi sta dentro e chi sta fuori. Qui abbiamo già una decrescita significativa del numero di donne che entrano nell’accademia, una porta di cristallo che in qualche modo seleziona il numero di donne che entrano in accademia. L’alto numero di ricercatrici donne a tempo indeterminato non è una cosa buona, perchè si tratta di una posizione ad esaurimento: significa che chi sta là da un po’ di tempo ci rimane per più tempo, mentre gli uomini sono riusciti più facilmente a fare il passaggio successivo, verso la posizione di professore di seconda fascia. E poi abbiamo un’ampia forbice che si registra nelle posizioni apicali, dove abbiamo un 25% di donne contro un 74,6% di uomini.
Questi sono i dati che descrivono tutta l’università italiana. E per quanto riguarda la fisica?
Se facciamo un focus sulla fisica, vediamo una forbice molto diversa. Innanzitutto abbiamo una bassa presenza di donne a inizio carriera: 31% di donne contro un 68% di uomini nella fase di assegnista di ricerca. Quindi c’è una forbice ampia, un gap già all’inizio. Ma nonostante questa bassa presenza iniziale, abbiamo un’ampissima riduzione del numero di donne in corrispondenza proprio della porta di cristallo: la percentuale di donne che riesce ad avere accesso all’accademia come ricercatrice in fisica con una posizione stabile si attesta al 19%. Da subito c’è una caduta rapidissima molto significativa: eravamo partiti da un 31% e arriviamo al 19%. E poi abbiamo la solita discesa verso il basso quando ci spostiamo verso le posizioni apicali: le donne che sono professoresse ordinarie in fisica sono il 14,6%. Ovviamente questo studio non ricopre tutta la presenza, poichè ci sono fisici e fisiche negli enti di ricerca. Ma la fisica si caratterizza come uno degli ambiti disciplinari dove è più significativa la problematica legata al genere della scarsa presenza delle donne.
Come si relaziona la forbice riscontrata nella fisica con quella all’interno di tutta l’accademia? Si tratta di un andamento amplificato dalla bassa presenza di donne all’inizio, oppure ha una forma diversa?
La forma della forbice è proprio diversa: già ci sono molte meno donne che decidono di intraprendere una carriera in fisica, ma in corrispondenza della posizione di ricercatore a tempo determinato di tipo B succede qualcosa di allucinante. Per quale motivo il numero di donne nella fase di stabilizzazione deve ridursi così tanto? Questo è grave.
Quando guardiamo al gap nella fase finale della carriera, stiamo guardando il risultato di carriere che si sono sviluppate alcune più velocemente, altre nel corso degli ultimi 20 anni: vediamo chi è appena diventato professore ordinario e chi sta per andare in pensione, ma fondamentalmente si tratta del retaggio di un passato in cui le donne avevano meno accesso all’istruzione. Ma quando guardiamo a quello che sta succedendo in corrispondenza della posizione di ricercatore a tempo determinato di tipo B, stiamo guardando a quello che accade ora nell’accademia, chi è stato stabilizzato oggi. Quindi vediamo l’accademia di domani, e soprattutto se abbiamo una percentuale di donne in fisica che si riduce dal 31% al 19% nel momento in cui si passa a una stabilizzazione, significa che ci sono dei processi che determinano questa segregazione delle donne che sono attivi adesso, che adesso stanno portando fuori le donne. Quindi c’è la necessità di intervenire perchè ci sono delle cose che non vanno. E qui si potrebbe aprire un capitolo molto ampio sul perchè.
Parliamo invece delle azioni che possono contrastare questo trend…
Le azioni che possono essere messe in campo sono tante ed è assolutamente necessario fare un’analisi strettamente legata al contesto istituzionale di riferimento. Personalmente, non ritengo che esistano delle buone pratiche assolute. Un’azione è una buona pratica solo nel momento in cui è messa in pratica e funziona bene. Ma in realtà un’azione che funziona bene in un contesto può essere assolutamente non adatta ad altri contesti. Il primo mito da sfatare, per me, è quello delle buone pratiche assolute.
Detto questo, ci sono una serie di azioni che possono essere portate avanti. È chiaro che dei servizi di sostegno alla genitorialità , delle azioni che incrementino la distribuzione del carico genitoriale tra uomini e donne, soprattutto nelle prime fasi della crescita dei bambini, sono delle azioni che possono funzionare. Ma le problematiche delle donne nella scienza non sono riconducibili solo a delle questioni legate agli aspetti di conciliazione o gestione della maternità . Vediamo che anche molte donne che non hanno figli hanno difficoltà , e tra l’altro non tutte le donne affrontano le stesse difficoltà , ci sono anche donne che affermano di non aver avuto problemi.
Quello che però è chiaro è che ci deve essere un forte cambiamento culturale all’interno delle istituzioni, che devono avviare dei processi trasformativi innanzitutto per riconoscere l’esistenza di una questione di genere, che spesso viene negata, e poi per cercare di capire quali sono le pratiche quotidiane che creano queste differenziazioni di percorsi, all’interno delle istituzioni scientifiche, che sono legate al genere.
A volte sono pratiche legate anche alle normative: per esempio, nel caso della maternità , nei processi di valutazione questo viene considerato. Ma quanto? Normalmente nelle valutazioni dei concorsi in Italia si considerano cinque mesi di assenza obbligatoria. In Europa, in particolare se si fa domanda per un bando dello European Research Council (ERC), la maternità viene considerata 18 mesi: un tempo ragionevole. Se vuoi considerare il peso della maternità nella produttività scientifica, cinque mesi, di cui due di gravidanza e tre di allattamento, sono irrisori: a tre mesi, dove va il bambino? Da un robot? All’asilo nido, ammesso che ne esistano? È possibile che, una volta fatto un figlio, a tre mesi noi ce lo dimentichiamo, lo mettiamo in un asilo e lo andiamo a prendere la notte? E comunque facciamo le nottate, e quindi non abbiamo il sonno per avere gli stessi livelli di produttività . Questi cinque mesi sono veramente un’offesa alle donne, agli uomini, ai bambini e alle bambine: significa veramente non considerare il lavoro di cura che è assolutamente necessario se pensiamo di vivere in una società che attribuisca un significato alla genitorialità . Questa rimozione del lavoro di cura è un aspetto pervasivo nelle organizzazioni lavorative, e in particolare nell’accademia italiana.
Altre questioni invece sono più formali: la letteratura di ricerca sui gender studies in academia ha mostrato, negli ultimi anni, come in molti meccanismi di valutazione esistano dei bias di genere, per cui i modelli stessi di eccellenza e di performance che vengono stimolati hanno in sè dei bias di genere. Ma in realtà questi processi di esclusione sono spesso legati proprio alle pratiche quotidiane: non a delle norme, ma a qualcosa che avviene, per esempio, quando ci si trova attorno a un tavolo e si distribuiscono i compiti. I lavori di maggiore responsabilità o maggior prestigio sono distribuiti in modo non equo tra uomini e donne, e non solo considerando aspetti legati al merito.
Cosa fare, dunque?
Sono tante le azioni che possono essere messe in campo. Qui alla Federico II lavoriamo da anni a dei progetti di mentoring a supporto delle carriere dei giovani ricercatori e delle giovani ricercatrici. Abbiamo iniziato con un progetto di mentoring proprio nel 2014, era una delle azioni portate avanti nel Gender Equality Action Plan di GENOVATE, il progetto europeo di cui parlavo prima. All’epoca, i programmi di mentoring erano davvero poco diffusi.
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