Play to learn | Learn to play

Roberto Farnè: dai usciamo!

Aggiornato il 29 Novembre 2021

Oggi intervistiamo per la rubrica Play to learn|learn to play il Prof. Roberto Farnè curatore e ispiratore di molte esperienze di outdoor education nelle scuole italiane. L’outdoor education è un modo democratico per restituire all’infanzia dei momenti di sviluppo fondamentali che non sono più connaturati all’essere bambino. L’outdoor education pensa all’esperienza materiale come a un motore profondo di pensiero e linguaggio. E’ chiaro che questo modo di vivere la scuola è una vera e propria rivoluzione di ogni aspetto della vita scolastica anche dello stare in classe.

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Quando abbiamo iniziato a “non avere tempo” a scuola per coltivare la “tensione cognitiva” dei bambini di cui parlava Alberto Manzi, la loro curiosità?

catasta-di-legna1Questo è un processo che è avvenuto progressivamente più o meno negli ultimi 30 anni, una sorta di progressiva deriva di tipo istruzionista. In pedagogia c’è un dibattito da sempre fra due linee di pensiero: quella che privilegia la I di istruzione e quella che privilegia la E dell’educazione. Ovviamente è un discorso retorico messo in questo modo, perché le due cose ovviamente stanno insieme ma indicano due differenti approcci. La I di istruzione è più centrata sulla trasmissione e l’acquisizione di apprendimenti, conoscenze e competenze quindi un modello di scuola molto basato sull’istruzione e la programmazione. L’altro approccio – quello della E di Educazione – guarda invece più alla dimensione formativa della persona, dove ovviamente l’istruzione è una parte importante perché la scuola di questo si occupa, però ciò che conta è anche la formazione e l’educazione della persona e quindi le esperienze che vengono fatte. La scuola è luogo di esperienza, qui bisognerebbe riprendere tutto il modello della pedagogia Deweyana e per certi versi Montessoriana. Quello che ha preso il sopravvento è un modello di scuola basato sull’ accountability, cioè la possibilità di rendicontare e dimostrare che la scuola funziona sulla base della sua efficacia didattica, ovvero il rapporto insegnamento – apprendimento. Progressivamente si è ritenuto che l’efficacia della scuola risiedesse soprattutto nel suo progressivo aggiornamento, nell’approvvigionamento tecnologico e che l’efficienza della didattica si misurasse in modo puramente quantitativo. Gli aspetti qualitativi che riguardano appunto lo sviluppo delle capacità di autonomia e di esperienza vengono lasciati in secondo piano. Ovviamente se io guardo a questo modello dell’efficacia degli apprendimenti in modelli quantitativi di valutazione è ovvio che ho a che fare con un modello di tipo tecnologico di economia dell’istruzione che implica tempi molto scanditi e definiti e molto ben organizzati. L’orientamento dell’outdoor education ci dice invece che è necessario dedicare del tempo lungo all’educazione: se io metto al centro dell’attività didattica l’esperienza concreta mi rendo conto che i tempi sono completamente diversi, la relazione fra l’insegnante e gli allievi è diversa rispetto allo stare in classe tradizionale perché il docente deve far emergere gli apprendimenti dalle esperienze che si fanno. Lei si occupa di scienza, ecco, questo è uno dei campi tipici di applicazione, ovvero la didattica della scienza. Un conto è se io insegno attraverso spiegazioni, formule da imparare e diciamo “algoritmi didattici”, che comunque poi funzionano perché i bambini sono obbedienti e studiano; ma ben altra cosa è se invece io faccio nascere il sapere scientifico dall’osservazione della realtà e dal mettere le mani sulle cose. Questo è un modello “hands-on” che implica appunto mettere in campo i propri sensi, l’osservazione, la sperimentazione; facendo ciò ci si pongono delle domande e su queste domande poi si lavora, si costruisce un sapere che sarà sempre provvisorio. Se scelgo questa direzione mi accorgo che il processo didattico è completamente diverso.
arrampicarsi1 Come lei sa molto bene, il nostro paese a confronto con altri paesi europei, registra tra i più bassi livelli di cultura scientifica. Questo non è un caso perché il sapere scientifico viene percepito male e conosciuto male. In realtà il bambino è naturalmente scienziato: questa è l’idea che aveva Alberto Manzi, condivisa anche da altri. Il fatto biologico evolutivo è che il bambino ha voglia di conoscere il mondo che gli sta intorno e le sue domande nascono da questa curiosità innata. Il problema è che la scuola non incentiva questa curiosità, non la provoca, non la mantiene viva mentre sarebbe questo il suo compito principale. Per il modello didattico dell’outdoor education gli apprendimenti sono fondamentali ma li elabora in maniera diversa. Oggi la nostra scuola è prevalentemente se non essenzialmente indoor (dentro). Si sta dentro anche perché in classe il docente ha il controllo completo del setting e nella bilancia tra insegnamento e apprendimento la centralità viene posta nell’insegnamento. Quello che così ci  dimentichiamo è che l’apprendimento è un processo biologico naturale potentissimo! Noi nasciamo con il bisogno naturale di imparare, poi ovviamente come homo sapiens e con il nostro sistema culturale abbiamo elaborato strategie di insegnamento che non sono altro che strategie di comunicazione, che rendono più efficiente la trasmissione delle conoscenze. In realtà però è l’apprendimento il vero motore e la potenza del processo. Se noi sovrapponiamo completamente alla dimensione naturale dell’apprendimento quella dell’insegnamento otteniamo quella che viene definita la “scolastica classica” ovvero un luogo, una scuola, dove si insegna, si insegna, si insegna… e i bambini devono imparare, imparare, imparare, ma il bisogno di apprendimento naturale non viene sviluppato né incentivato né provocato. 

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Quindi in questo caso si impara più a “stare a scuola” che a comprendere il mondo. Effettivamente ci sono bambini molto scolastici che intuiscono sempre la risposta che bisogna dare, il comportamento da tenere e “vanno bene a scuola” ma bambini magari curiosissimi che vengono completamente “appiattiti” dalla proposta didattica. Possiamo dire che andare fuori, al di là delle specificità, è anche un modo per rimescolare le carte e cambiare la postura del docente portando naturalmente l’attenzione sull’apprendimento?
Io pongo sempre questa questione un po’ provocatoria quando mi trovo a ragionare di questi argomenti con i docenti: perché se io dico ai bambini “andiamo fuori” i bambini sono immediatamente felici e pronti per uscire? Non consultano il meteo, non si pongono domande? Il motivo è che i bambini fuori stanno bene noi adulti no! Questo è il punto! Nei bambini prevale quella dimensione che Wilson ha definito “biophilia” (Wilson 1984) ovvero il fatto che, soprattutto nell’età dello sviluppo, il bambino è naturalmente spinto a cercare questo rapporto con la dimensione esterna, le cose concrete, gli elementi naturali. Questa è una spinta innanzitutto biologica, senza poi contare gli aspetti invece fisiologici del benessere fisico dello stare all’aperto che sono ampiamente dimostrati (dalla vitamina D alle endorfine). Il punto è che l’adulto invece ha paura di questa dimensione. Nel passato, che non è il medioevo ma parliamo di qualche decennio fa, i bambini stavano normalmente fuori; l’ambiente esterno era il normale ambiente di vita dei bambini e la scuola non doveva preoccuparsi di questo. I bambini stavano a scuola, poi andavano a casa facevano i compiti più velocemente possibile e poi andavano fuori a giocare trovandosi con i loro compagni a giocare nei cortili, nelle strade, nei giardini, quello che c’era. Oggi tutto questo non avviene più, nell’arco di circa due generazioni sono cambiate le condizioni di vita. In questo arco di tempo sono cambiati gli stili di vita e quello che la ricerca scientifica ci dice è che questi cambiamenti hanno provocato dei danni nell’infanzia. Molti dei problemi dei disturbi dell’apprendimento, molte delle difficoltà che i bambini hanno, derivano da questo mancato appuntamento con la natura: disturbi dell’attenzione, iperattività, fragilità emotiva, difficoltà di socializzazione ma anche più della metà delle malformazioni fisiche lievi sono dovute ad una eccessiva sedentarietà. Nel passato i bambini avevano tempi e spazi per sperimentare il mondo, oggi non più e stiamo già vedendo i danni. Non possiamo ignorare questo problema che prima di essere pedagogico è un tema di salute. E questo tema non è qualcosa di improvvisato, che a un certo punto la pedagogia ha inventato, ma è almeno dal diciassettesimo secolo che la pedagogia parla di ambiente: Locke, Rousseau Fenelon. Poi molte di quelle intuizioni settecentesche sono state scientificamente dimostrate: Montessori, Piaget, Wallon. Il problema è che oggi non possiamo più ignorare questa questione perché ci accorgiamo che i bambini hanno dei danni e in qualche modo dobbiamo restituire all’infanzia ciò che gli abbiamo tolto. Perché ricordiamoci che è il mondo adulto che ha privato i bambini di queste esperienze. Dunque la scuola deve assolutamente muoversi in questo senso. Chiaramente la responsabilità è condivisa con la famiglia ma la scuola intanto può garantire a tutti un minimo di esperienze all’aperto. 

Un tema trasversale per l’outdoor education così come per molte altre pratiche attive come ad esempio il tinkering di cui io ho più esperienza è il tema della sicurezza. Chiaro che tutti vogliamo che i bambini siano sicuri ma altrettanto importante è che facciano alcune esperienze. Quello che succede alle volte è che non si valutino correttamente rischi e benefici mettendo sulla bilancia il vero valore dell’attività e il potenziale rischio. A fronte di un rischio anche molto moderato o pressoché inesistente l’attività viene cancellata o depauperata perché non si percepisce il “rischio” nel non esporre i ragazzi ad un certo tipo di esperienze.

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Per prima cosa voglio sottolineare che outdoor education non vuol dire andare fuori un po’ di più per liberare i bambini, ma significa impostare l’attività didattica affinché l’ambiente esterno diventi un ambiente di apprendimento: questo è il punto, perché altrimenti è l’ “ora d’aria”. Tutte le esperienze di outdoor education che noi seguiamo con gli insegnanti che abitualmente fanno attività all’aperto dimostrano che non c’è nessun incremento di incidenti: non è vero nulla! I bambini imparano a stare fuori: non sono stupidi e noi li sottovalutiamo; i bambini hanno delle capacità e delle competenze che sono in grado di mettere in atto, imparano! Ovviamente l’adulto serve ma il bambino non è una persona completamente sprovveduta anzi è naturalmente predisposto a imparare. Noi dobbiamo essere molto attenti su ciò che è avvenuto in ambito educativo: non distinguiamo più fra rischio e pericolo. I due termini non sono sinonimi e se noi li sovrapponiamo facciamo un’operazione veramente assurda perché è chiaro che io come educatore debbo proteggere i bambini dai pericoli, guai se non lo facessi e ovviamente sarei perseguito per legge, perché gli adulti hanno il dovere di proteggere l’infanzia. Altra cosa sono i rischi. Non a caso nel linguaggio comune i pericoli si evitano, i rischi si valutano e semmai si corrono. Se lavoro con dei bambini di quattro anni posso capire che una certa attività può essere pericolosa per loro ma magari la stessa attività andrebbe benissimo se avessero sei anni. Non c’è una formula da applicare, me lo dice la mia sensibilità personale, ecco perché io penso che il problema centrale dell’outdoor education sia la sensibilità outdoor che hanno gli adulti, questo è il vero nodo. Si può creare un problema quando gli insegnanti che non vivono bene l’ambiente esterno.

D’altra parte i rischi sono in realtà della straordinarie fonti di apprendimento. I bambini continuamente cercano di fare delle cose che sono sempre un po’ rischiose perché da esse imparano. Quando noi ci riempiamo la bocca con il problem solving alla fine parliamo di questo: essere in grado di risolvere un problema. Se un bambino si arrampica su un albero (posto che possa farlo) si trova col problema di scendere perché arrampicarsi è semplice perché tu guardi in alto, ma poi devi scendere, devi guardare giù, devi trovare l’appoggio del piede, decidere su quale ramo, non lasciare la mano finché non sei sicuro. L’adulto è lì e ti aiuta in questo ma il problema lo devi risolvere tu che stai sull’albero.

esploriamo-il-territorio Questo significa che l’elaborazione del problem solving avviene in situazione non perché a tavolino ti insegno a risolvere un problema. Se io do ai bambini dei bastoni, dei teli e delle corde la cosa che spontaneamente faranno sarà costruire un qualche tipo di capanna o rifugio. Se vuoi costruire una capanna con i tuoi compagni devi risolvere dei problemi perché una capanna deve stare su. Ci sono problemi di fisica, di geometria e se c’è un bravo insegnante sfrutta questi elementi per un apprendimento profondo. Noi abbiamo bisogno di mettere i bambini in condizione di vivere delle esperienze, lo dico con franchezza, anche con qualche livello di rischio adeguato alla loro età, perché imparano e prendono sicurezza di sé. Questo lo sa qualsiasi adulto che si è trovato davanti un bambino che ha imparato qualcosa di nuovo: avrà visto l’entusiasmo e la necessità di trovare una conferma. Il bambino è convinto di aver raggiunto un nuovo obiettivo e ci dice: “guarda cosa sono riuscito a fare”. Il mio maestro all’università Piero Bertolini, per tanti anni educatore, poi direttore del Carcere Beccaria, diceva che la competenza di un educatore dovrebbe essere addirittura quella di mettere i bambini in difficoltà. Come educatore quindi, dovrei mettere i bambini in difficoltà conoscendola, per vedere come un bambino ne viene fuori: la sfida. Quando i bambini scavano per terra, che è una delle cose che piace di più ai bambini, trovano il lombrico o un insetto. E uno si può domandare come fa un animale a vivere sottoterra? E’ possibile vivere sottoterra? Questa è una sfida cognitiva e badate che i bambini le risposte le hanno. I bambini propongono delle risposte. Allora il concetto di sfida non è solamente legato al rischio ma alle esperienze da cui nascono sfide cognitive, di apprendimento e di conoscenza. Quando facciamo outdoor education a scuola, l’esperienza del bambino deve diventare pensiero e linguaggio perché altrimenti rimane un’esperienza ed è vero che i bambini possono fare mille esperienze e non imparare niente. L’insegnante cura proprio questa trasformazione: dall’esperienza sul campo dobbiamo elaborare il pensiero e il linguaggio, ad esempio facendo ricerche in classe, ponendoci nuove domande, provando a trovare risposte e rilanciando continuamente. In questo modo il “fuori” e il “dentro” sono in assoluta continuità. Non c’è nessun ambito della didattica che non possa essere sviluppato anche in ambiente esterno. Io alcuni anni fa ho scritto un articolo partendo dai campi di esperienza della scuola dell’infanzia.  Non c’è nessun nessun campo d’esperienza didattico e nessun ambito disciplinare che non possa avere nell’ambiente esterno un suo luogo di riferimento e una sua esperienza di riferimento. Chissà perché nell’immaginario comune, la didattica è sempre agita in un ambiente interno. Questo è un problema di formazione degli insegnanti che è un grande problema oggi nel nostro paese.

Sembra che uno dei problemi sia proprio l’inadeguatezza dell’adulto nello stare fuori, come se avesse scordato come si può stare fuori e facesse fatica ad immaginare quali cose potrebbero essere interessanti da provare. Immagino che una parte importante della formazione possa essere proprio una riappropriazione da parte del docente dello stare fuori. Nella formazione sarà importante costruire delle attività in cui i docenti direttamente possano sperimentare e si trovino a imparare qualcosa attraverso questo processo. 

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E’ esattamente quello che noi stiamo proponendo nei nostri percorsi di formazione. Ci siamo accorti che l’outdoor education funziona laddove abbiamo degli insegnanti che hanno fatto dei percorsi esperienziali personali; gli insegnanti più disponibili a mettersi in gioco guarda caso erano insegnanti che magari erano coinvolti con lo scoutismo o con sport a livello agonistico o avevano avuto esperienze in ambiente naturale, ad esempio trekking, arrampicata, grotta. Questi insegnanti non hanno paura a mettersi in gioco e questo non gliel’ha dato l’Università ma il loro percorso personale. Questa è la ragione per cui noi da tre anni abbiamo istituito il Master in Outdoor Education presso L’Università di Bologna. Il master è l’unico percorso formativo universitario che ci consente di mettere insieme esperienze teoriche e pratiche. Nel master organizziamo tutte le esperienze tipiche dell’outdoor education con gli insegnanti e gli educatori non perché loro devono diventare esperti o devono essere preparati atleticamente ma perché è necessario misurare la propria sensibilità, il proprio stare bene fuori in modo diretto. E’ necessario ricostruire un  rapporto con l’ambiente esterno e trovare ciò che ha consonanza con la propria persona. Con i corsisti del master noi facciamo tutte le esperienze: il trekking, l’arrampicata, la grotta, la barca, il pernottamento nel bosco, cioè tutte le esperienze connotate come “outdoor education” e portiamo avanti tutte le riflessioni sul sé che queste esperienze portano. La domanda è: cosa hai imparato di te stesso dentro questa esperienza? A quel punto avendo un tuo bagaglio di esperienze, sei anche in grado di riproporle e adattarle. Insieme a questo “bagaglio” si acquisiscono tutte le competenze anche di tipo scientifico e culturale: dalla fisiologia, all’ambito giuridico a quello psicologico. Noi crediamo che oggi la formazione dell’insegnante in genere non funzioni, perché è una formazione completamente disarticolata da questi campi di esperienze per cui formiamo insegnanti che in realtà sono in difficoltà, a meno che non posseggano già questa esperienza come bagaglio personale. 

Chiediamo tantissimo ai nostri insegnanti perché fare queste attività è estremamente più complesso e faticoso che organizzare una lezione frontale. Oltre a ciò le scuole dove operano questi insegnanti spesso non sono favorevoli perché a fronte del loro incredibile lavoro gli vengono poste domande stupide tipo “ma secondo te facendo queste attività stanno veramente imparando?”. Come comunità di ricerca stiamo facendo il massimo per questi docenti che si trovano ancora a dover giustificare il loro operato? 

parco-talon Anche se in ritardo rispetto al resto d’Europa questo lavoro si sta sviluppando da una decina d’anni e c’è già parecchia letteratura di supporto. Nella pagina web del centro di ricerca e anche nel percorso di formazione sull’outdoor education del nostro dipartimento c’è anche una bibliografia di riferimento. In realtà ciò che spesso frena gli insegnanti è che pensano di non poter fare molte cose dal punto di vista della legge. Ma questo non è assolutamente vero! Qui bisogna richiamare il concetto di libertà di insegnamento: se io sono un insegnante, io posso decidere liberamente di impostare la mia attività didattica anche prevalentemente fuori, nessuno mi può dire di no. Se io ritengo di sviluppare la mia pratica in questo modo posso farlo, dopodiché è chiaro che devo essere in grado di dimostrare che funziona e dare conto alle famiglie e al dirigente. Così come non c’è scritto da nessuna parte che i bambini fuori non possono scavare o non possono arrampicarsi. Le norme esistono e riguardano la sicurezza ma ovviamente non c’è scritto in nessun regolamento che i bambini non possono usare l’acqua, che fuori non si possa fare attività espressiva o attività fisica. Noi abbiamo esasperato la dimensione del rischio perché si pensa subito al piccolo incidente e alla denuncia. Questo però allora è un problema di rapporto con le famiglie; è necessario coinvolgere da subito le famiglie, già all’inizio dell’anno scolastico comunicando questa scelta educativa molto caratterizzata dallo stare fuori. Il docente dovrà saper spiegare le ragioni di questa scelta ma ricordiamoci che il progetto didattico lo fa la scuola, non se lo fa dire dai genitori. Stiamo lavorando per esempio in alcune scuole sull’arredo degli spazi esterni, in particolare in una scuola primaria di Bertinoro dove abbiamo fatto un allestimento dello spazio esterno nell’ottica appunto dell’outdoor education. In questo spazio c’è la zona dove i bambini scavano, la zona dell’acqua, la zona dell’attività motoria, uno spazio per la narrazione, c’è l’angolo del fuoco.
Quando ho proposto quest’ultima cosa mi hanno preso per matto ma poi alla fine la cosa era fattibile e a norma di legge. Certamente non si tratta di un falò ma di un angolo dove i bambini possono fare l’esperienza di un elemento naturale che non avrebbero possibilità di fare altrove. Ci preoccupiamo di questo tipo di rischio ma non vediamo altri elementi di enorme allarme, ad esempio alcuni bambini alla scuola dell’infanzia hanno letteralmente paura di sporcarsi. Quindi i rischi non sono solo quelli facili da vedere; ricordiamoci che un rischio e un danno grave vengono anche dal non poter fare esperienze ricche, profonde e in generale dal “togliere” all’esperienza educativa.

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Ringraziamo il Prof. Roberto Farnè per questa interessante chiacchierata sull’outdoor education piena di spunti per ripensare l’azione educativa con un riferimento speciale per le discipline STEM.

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Roberto Farnè

Roberto Farnè laureato in Pedagogia all’Università di Bologna, ha lavorato per dieci anni come educatore e operatore culturale. Nel 1983 vince il concorso per ricercatore ed entra nel Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna e dal 2001 è professore ordinario. La sua attività di ricerca, documentata da numerose pubblicazioni, e l’attività didattica riguardano principalmente la Pedagogia del gioco e dello sport, l’iconografia didattica, la media education. Ha collaborato per progetti di ricerca legati alle sue competenze con enti pubblici e privati tra cui RAI, Walt Disney Italia, Centro Nazionale di Documentazione ed Analisi sull’Infanzia e l’Adolescenza, Regione Emilia-Romagna. Dal 2007 al 2012 è stato Direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin”, Università di Bologna. Attualmente fa parte del Dipartimento di Scienze per Qualità della Vita di cui è vicedirettore.
E’ Condirettore (insieme a Franco Frabboni) della rivista Infanzia (studi ed esperienze sull’educazione 0-6) – Membro del comitato scientifico delle riviste: Encyclopaideia, rivista di fenomenologia, pedagogia, formazione (International journal of Phenomenology and Education), Università di Bologna; Liber, libri per bambini e ragazzi; Movimento, rivista di Psicologia e Scienze del Movimento e dello Sport; Doxa comunicaciòn, Revista interdisciplinar de estudios de comunicaciòn y ciencias sociales, Univ S.Pablo CEU, Madrid.
Nel 2003 ha vinto lo “Lo Stilo d’oro”, Premio nazionale di Pedagogia “Raffaele Laporta”, nella sezione “Didattica”, con il libro Iconologia didattica. Le immagini per l’educazione dall’Orbis pictus a Sesame street, Zanichelli, Bologna.

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Scritto da

Sara Ricciardi Sara Ricciardi

Ricercatrice presso l'Osservatorio di Astrofisica e di Scienza dello Spazio di Bologna. Nel campo della didattica e della divulgazione, si occupa di attività di pratiche costruzioniste ed in particolare di tinkering a scuola.

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