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Enrico Bottero: una classe cooperativa

Aggiornato il 25 Febbraio 2022

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Enrico Bottero

Oggi, per la rubrica Play to learn|learn to play, intervistiamo il Prof. Enrico Bottero. L’idea dell’intervista nasce da una mia recente lettura del suo bellissimo libro Pedagogia cooperativa. Le pratiche Freinet per la scuola di oggi, uscito l’anno scorso per la casa Editrice Armando Armando. Premesso che ne sapevo veramente poco di Freinet mi sono incredibilmente stupita intanto della freschezza di alcune idee che restano innovative anche nella scuola contemporanea e poi dal mio punto di vista ho visto molto terreno in comune con le pratiche costruzioniste, soprattutto nella figura del docente facilitatore del processo di apprendimento. Incuriosita ho deciso di andare un po’ a fondo e discutere con l’autore del libro che generosamente ci ha concesso molto tempo. Raccolgo in questa pagina un po’ della discussione che è scaturita dalle nostre conversazioni sia attraverso un breve video che nella trascrizione di alcune parti delle chiacchierata.

Anche questa volta è possibile ascoltare la lunghissima chiacchierata integrale in podcast qui sulla pagina o anche su Apple Podcast o Google Podcast

Per prima cosa ho chiesto ad Enrico cosa rende le tecniche Freinet e questo modo di fare scuola così attuale secondo lui.
I metodi attivi sono attuali per una semplice ragione: perché il compito dell’educazione, sia a scuola che fuori dalla scuola, non è insegnare ma fare apprendere, non è valutare ma formare. Non basta fare una bella lezione affinché i ragazzi apprendano. Lo aveva già scritto con chiarezza Francesco De Bartolomeis nel 1963 in un libro di cui ho recentemente curato la ripubblicazione (I metodi nella pedagogia contemporanea); ogni buon insegnante si deve porre il problema di come fare affinché ciò accada. E’ provato che il sistema della lezione trasmissiva per questo compito sia meno efficace proprio perché i ragazzi si trovano in una situazione passiva. Da un punto di vista storico il modello della lezione trasmissiva è figlio dell’insegnamento religioso sia nel mondo protestante che in quello cattolico (i gesuiti e i lasalliani). In questo modello, che nasce con la controriforma, la scuola acquisisce quella struttura razionale che poi erediteranno le scuole nazionali: classi omogenee per età, valutazione numerica, insegnamento simultaneo e collettivo. Anche le scuole nazionali laiche, compresa quella italiana nell’ottocento, hanno scelto questo modello di insegnamento. Si è fatta questa scelta (accantonando il modello del “muto insegnamento” nato in Inghilterra verso la fine del XVIII secolo) perché lo scopo politico delle scuole nazionali era principalmente quello di “formare” i nuovi cittadini e costruire un consenso politico attorno alle nuove identità nazionali. Il problema però era ed è che questo modello va contro le leggi dell’apprendimento. Se ne accorsero i primi attivisti già nell’ottocento. Un filosofo francese Henri Marion, nella seconda metà dell’ottocento diceva: “C’è un solo metodo pedagogico degno di questo nome, è il metodo attivo”. Ogni buon metodo di insegnamento deve unire il momento della scoperta e della ricerca con quello della formalizzazione. E’ importante però partire dalla ricerca, cioè dalla mobilitazione, dall’azione dei ragazzi: questa è la grande intuizione degli attivisti. A cavallo tra ottocento e novecento sono nate le moderne scuole attive: negli Stati Uniti con la progressive education di Dewey e in Europa con tanti esponenti tra cui Célestin Freinet. Il loro obiettivo era fare della scuola non una preparazione alla vita, ma la vita stessa. Cioè nella scuola si vive, si fa esperienza, i laboratori sono soprattutto laboratori pratici. Successivamente però soprattutto dopo Piaget e con il cognitivismo, ci si è accorti che non necessariamente coinvolgendo i ragazzi in un’attività pratica poi si arriva automaticamente all’apprendimento. Serve un passaggio in più. Qualunque persona messa di fronte ad un problema pratico risolve il problema e spesso si ferma. Per esempio, io posso benissimo risolvere un problema matematico pur non avendo compreso il senso del problema. Si può benissimo riuscire in un compito o in un’attività senza aver profondamente compreso. Questo è il problema che ci si è posti nel Novecento. Come i metodi attivi dovrebbero tenerne conto? I metodi attivi sono sempre attuali ma il ragazzo deve essere mobilitato non solo fisicamente ma anche e soprattutto mentalmente.

Dal mio punto di vista questo forse è ancora più vero per le discipline scientifiche perché proprio così funziona il metodo e la comunità di ricerca e non avrebbe senso uno studio delle scienze che parte “dal libro” che è alla fine una cosa morta. Chiaro che anche per noi non si tratta di risolvere un “problema” e basta: una nuova domanda di ricerca magari si concretizza nell’ideazione di un nuovo un esperimento e una nuova misura ma poi non finisce la. I nuovi dati danno una nuova direzione e un nuovo impulso e spesso fanno sorgere altre domande alle quali si prova a rispondere con le idee del presente ma anche costruendo possibili idee del futuro.
Tu stai ragionando come ragiona uno scienziato che è già nella logica della problematizzazione. Il bambino invece nel suo percorso deve arrivare alla logica della problematizzazione attraverso i metodi della ricerca, anzi potremmo dire che questo sia proprio l’obiettivo non dandolo per scontato come punto di partenza. Il bambino infatti non parte da questa prospettiva e non sa necessariamente trasformare le sue domande in problemi generali. Per cominciare bisogna iniziare da attività pratiche, era questo che aveva capito profondamente Freinet, da attività che mobilitano il ragazzo: per esempio, fare un giornale, fare la corrispondenza interscolastica, fare le uscite matematiche, ovvero uscire con gli occhiali matematici, osservare la realtà sotto questa lente. Tutte queste sono tecniche che spingono il bambino ad interrogarsi, a problematizzare, partono da una mobilitazione pratica.

Abbiamo poi parlato di come queste tecniche possano aiutare a sollecitare le domande dei bambini: dall’allevamento di piccoli animali alla crescita delle piante in un orto: è chiaro che questi maestri non mettono in piedi queste attività solo per interesse pratico ma proprio per far nascere da quelle esperienze delle domande che poi possono essere colte per un inizio di ricerca scientifica.In questa chiave ho proposto ad Enrico una possibile rivisitazione di un grande classico della scuola primaria ovvero i 5 sensi. Partendo dai 5 sensi e da esperienze sensoriali dirette si potrebbe sollecitare un discorso legato all’evoluzione, capire perché abbiamo gli occhi fatti in questo modo proprio perché ci siamo evoluti vicino alla stella sole e come mai gli occhi degli animali sono in parte diversi magari approfondendo i sensi degli animali che vivono lontano dalla luce. Potremmo poi andare dai sensi ai sensori per provare a guardare da un altro punto di vista i device e i loro sensori che sicuramente sono davanti ai bambini ogni giorno ma che potrebbero essere indagati con un occhio più curioso e attivo.
Enrico su questo ci ha risposto che senza demonizzare la tecnologia bisogna rendersi conto dei rischi connessi.

La recente enfatizzazione del tecnologico, soprattutto per ragioni di marketing, ha portato a far utilizzare ai bambini oggetti virtuali fin da quando sono piccoli dimenticandosi che questi oggetti sono virtuali e che il bambino in quegli anni sta sviluppando il proprio pensiero a partire dal corpo e dall’esperienza multisensoriale. Soprattutto nei primi anni di vita il bambino ha bisogno di fare esperienze multisensoriali, quindi di sviluppare l’orientamento spaziale, le sinestesie, la manualità fine, il rapporto con i suoni e con le immagini, il rapporto con gli altri, anche fisico, e, sul piano relazionale, apprendere l’empatia attraverso la negoziazione con i coetanei. Se noi lo isoliamo davanti a uno smartphone stiamo praticamente bloccando uno sviluppo. Attenzione quindi. Si tratta di un problema serio perché bisogna porre attenzione ai bambini e ai loro tempi di sviluppo. Come ricordava Piaget, bisogna rispettare i tempi dello sviluppo, non per lasciare il bambino lì dov’è ma per meglio aiutarlo a progredire.

Io non ho ancora capito cosa sia successo nel mezzo, quando penso a un de Bartolomeis come a tante altre esperienze meravigliose che io scopro ora ma che accadevano negli anni ’70 non mi capacito di come oggi siamo così indietro. Cosa è successo?
Il motivo di quello che vediamo oggi nella scuola e nella società dipende dal fatto che a partire dagli anni ottanta sono cambiate molte cose, soprattutto è cambiato il capitalismo.. Dal dopoguerra fino alla fine degli anni ’70 il capitalismo aveva fatto compromessi con le esigenze di diffusione del benessere. Questo portò allo sviluppo dei servizi pubblici a favore dei cittadini: la scuola, la sanità, i trasporti. Dagli anni ‘80 in poi l’ideologia del mercato ha dominato incontrastata ed ha invaso anche gli spazi che prima al mercato non erano concessi. Siamo quindi passati da un’economia d mercato a una società di mercato. Questo cambiamento ha prodotto sviluppi culturali: molti giovani ad esempio non sanno che la sanità pubblica è stata una conquista importantissima ottenuta negli anni sessanta e settanta ( così come lo statuto dei lavoratori). Soprattutto non si rendono conto che queste ricchezze possono esserci sottratte da nuove politiche neoliberiste e oggi anche populiste. Io penso che ci sia una relazione tra l’educazione e la democrazia, lo pensava già Dewey ma oggi è vero a maggior ragione perché l’educazione deve essere in grado di formare cittadini democratici. I principi fondamentali della democrazia sono legati anche alla capacità di pensiero dei cittadini; formare cittadini democratici significa anzitutto formare persone capaci di argomentazione razionale e in grado di distinguere tra l’opinione e l’argomentazione razionale ben fondata, capaci, soprattutto, di difendersi dai persuasori, occulti e non. Per fare questo si deve partire dalla scuola: sviluppare pratiche di argomentazione razionale come quelle di cui di cui parlavamo prima affinché il bambino impari a distinguere che cos’è un’opinione, che cos’è un’argomentazione e come costruirla. Questo è la base della democrazia. Storicamente la democrazia è nata in Grecia nel quinto, quarto secolo a.c. proprio quando Socrate ha criticato i sofisti. Questi ultimi pensavano a una società in cui la politica fosse indentificata con l’arte di convincere gli altri delle proprie idee attraverso una buona retorica. Socrate affermò l’esigenza di rispondere a domande razionali. Qui è il fulcro della democrazia (e della scienza): saper comprendere la differenza tra l’opinione e l’argomentazione ben fondata. Quando ci riconosciamo in argomentazioni ci riconosciamo come comunità in un valore collettivo, in principi comuni che ci permettono perciò di vivere insieme. Se invece prevale l’opinione la lotta desolante tra esseri umani è in agguato. Su questi aspetti rinvio ai miei articoli pubblicati qui: Educazione civile

Approfondimenti

Enrico Bottero è stato insegnante, Dirigente Scolastico e per molti anni ricercatore presso l’Istituto Regionale di Ricerca Educativa del Piemonte (già IR.R.S.A.E.). E’ membro del comitato di redazione della Rivista Infanzia e del comitato Scientifico della Rivista Encyclopaideia. È stato Professore incaricato presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’università di Torino.È stato Dirigente dell’ufficio scuola e cultura presso i consolati di Nizza e Marsiglia (Francia). Si è occupato di ricerca educativa e didattica sui temi dei metodi di insegnamento, sull’educazione musicale e sul sapere dell’insegnare in genere. Ora si occupa soprattutto di pedagogia della scuola. Segnaliamo ai docenti il sito personale, generoso di interessanti punti di vista.

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Scritto da

Sara Ricciardi Sara Ricciardi

Ricercatrice presso l'Osservatorio di Astrofisica e di Scienza dello Spazio di Bologna. Nel campo della didattica e della divulgazione, si occupa di attività di pratiche costruzioniste ed in particolare di tinkering a scuola.

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