Aggiornato il 23 Settembre 2021
Il nostro ospite oggi è Alfonso D’ambrosio dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Lozzo Atestino. Alfonso comincia con una laurea in fisica, un dottorato in ingegneria aerospaziale e un post doc su neuroimaging e microscopia multifotone iniziando la sua carriera nell’ambiente di ricerca. Poi questa fase si chiude e comincia la sua carriera da docente. La fisica e i suoi metodi gli restano nel cuore e si dedica alle materie STEM con un interesse particolare sulle metodologie didattiche innovative non solo come docente ma anche come formatore. Poi la dirigenza scolastica. Dal 2019 infatti è dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Lozzo Atestino, 9 plessi, 33 classi, su tre comuni dei colli Euganei.
A mio avviso l’istituto comprensivo da te diretto quest’anno è stato un punto di riferimento per come siete riusciti a interpretare con positività anche momenti di grande sconforto. Ricordiamoci che Vo’ è il paese del primo morto di Covid in Italia e dove ci sono stati momenti veramente critici dal punto di vista sanitario.Vogliamo partire da questo?
La scuola che dirigo è su 3 comuni: Lozzo Atestino, Cinto Euganeo e Vo’. Quanto accaduto a Vo’ verrà ricordato nella storia spero non tristemente ma come una buona pratica in cui da una crisi si è fatta opportunità. Dal 21 febbraio 2020 a Vo’ sono accadute un po’ di cose: in primis la sperimentazione del Dottor Crisanti che ha portato a Vo’ ben 3 sierologici sull’intera popolazione, poi una serie di tamponi molecolari e proprio pochi giorni fa si è concluso un ulteriore step con la ricerca di anticorpi di lunga memoria (6/7 mesi). Una parte dello studio su Vo’ si è concluso in giugno su Nature. Questo ci insegna che l’innovazione è ricerca, che una ricerca deve essere strutturata e non improvvisata e che si va molto lontano se si va insieme. Mi auguro veramente
che la nostra scuola non sarà ricordata solo per l’inaugurazione dell’anno scolastico da parte del Presidente della Repubblica. Probabilmente la scelta è caduta sul nostro Istituto perché è stata prima scuola che ha avviato la didattica in modo ottimale, con dati e evidenze e al momento è anche l’unica in grado di simulare l’esame della secondaria di primo grado dimostrando che una didattica online se non è la migliore possibile, è qualcosa che certamente si può fare.
In questo spazio che è un po’ a metà strada tra la didattica che si fa a scuola e la ricerca stiamo anche cercando di trovare una definizione di didattica innovativa proprio attraverso una molteplicità di definizioni. Ci vuoi provare a dare la tua?
Il termine innovazione è polivalente, nel caso specifico di innovazione a scuola è la disponibilità da parte della comunità educante ad uscire dalle proprie routine, dalla propria comfort zone; in questo senso l’innovazione si fonda su un atteggiamento di ricerca-azione, vale a dire su una intenzione continua, non improvvisata di trovare le strade didattiche operative più funzionali. In questo senso avere quindi un atteggiamento didattico innovativo significa per forza di cose intrattenere dei rapporti con tutti gli ambienti di apprendimento che come dice Wilson non sono solo gli spazi fisici, in questo caso l’aula, o virtuali (ad esempio la DDI didattica digitale integrata ex DAD didattica a distanza) ma l’insieme dei soggetti che apprendono, gli strumenti che vengono utilizzati, le relazioni che vengono intraprese e le informazioni raccolte e scambiate (Wilson, G.B. 1996).
Innovazione didattica quindi significa ripensare la struttura dello stare in classe: uscire dalla lezione frontale e intraprendere attività didattiche collaborative e cooperative. Se per innovazione si intende il mero utilizzo di strumenti di cui tra l’altro mi sono largamente occupato e mi occupo (e.g. robotica educativa, mondi virtuali) sicuramente non ci siamo, perché questi sono strumenti anche importanti ma che rischiano di ridursi a tecniche. In questo senso l’innovazione è un atteggiamento in cui il docente non pensa che la sua azione sia definita e chiusa ma costantemente in ascolto e in movimento. Certamente non è acquistando un robottino LEGO che ho risolto i problemi della mia didattica né mi posso definire automaticamente innovativo perché utilizzo questo strumento.
Mi sembra che dietro queste idee ci sia un presupposto di un enorme cura e di attenzione proprio rispetto al ragazzo e ai suoi bisogni. Da quello che osservo dalle scuole con cui lavoro mi fa pensare che gran parte di questa azione possa essere rallentata se non completamente frenata dalla macchina-scuola. Da dirigente come si fa a far funzionare questa macchina?
Comincio con una premessa e con alcuni dati per capire quantitativamente di cosa stiamo parlando. In Italia ci sono 3 milioni di dipendenti della pubblica amministrazione e un terzo di essi, quindi un milione di persone è il mondo della scuola. Si parla di pubblica amministrazione come di un gigante dai piedi d’argilla con tutti i suoi problemi in primis la burocrazia, non solo come inerzia burocratica, ma proprio per la complicatezza dell’iter burocratico. Per andare da un punto A a un punto B, spesso devo passare anche per C, D, E F. In pratica, in molti casi, se non si è veramente determinati, si tende a desistere. La scuola è la più grande pubblica amministrazione del paese quindi questo certamente è un problema.
Negli ultimi anni sono intervenuti alcuni aspetti normativi. Citavo all’inizio il dpr 275 del ’99, grazie al quale le scuole dal primo settembre 2000 sono autonome e oggi nel 2020 ormai sono più che maggiorenni. In realtà questa autonomia non è analoga a quella raggiunta dalle aziende privatizzate. L’autonomia della scuola vede il nostro Ministero ancora con con le mani in tante decisioni che invece potrebbero essere gestite autonomamente dai dirigenti scolastici. Ad esempio, anche durante questa situazione pandemica in cui si doveva attivare la didattica digitale integrata, noi avevamo la possibilità di fare delle sperimentazioni importanti su spazi e tempi in cui organizzare questa didattica conoscendo i bisogni e le specificità del territorio. Il dirigente scolastico con il collegio dei docenti e i consigli di istituto avrebbero potuto articolare le lezioni in modo flessibile sfruttando tutte le risorse della scuola ma tutto ciò non è avvenuto perché il Ministero ha normato strettamente il monte ore in presenza. Il Ministero tiene ancora le redini su tutto, anche nella gestione dei fondi. Infatti tutti i fondi scolastici sono in un modo o nell’altro vincolati al Ministero. La vera autonomia che abbiamo ma sfruttiamo poco è l’autonomia didattica, ad esempio modificando i curricoli fino al 20% per cento del tempo scuola. Nella nostra scuola dal prossimo anno si potrà scegliere un nuovo indirizzo con una nuova disciplina che si chiamerà coding e robotica educativa. Questa possibilità è molto interessante ma è utilizzata da meno del 7% delle scuole italiane. Alcune pratiche di autonomia esistono ma sono sottoutilizzate: in pratica si preferisce restare ancora sotto la “mamma chioccia” Ministero.
Ci sono tantissimi studiosi che si occupano del ruolo del dirigente e quindi esiste una letteratura. Io personalmente credo che la prima cosa da fare nelle scuole, siano esse pubbliche o private, sia costruire valore e aggregare le persone attorno a idee e obiettivi. In primis i docenti poi tutta la comunità scolastica fino alle famiglie. Quello che voglio dire è che se ci vogliamo affrancare dal ministero, anche se mancano gli strumenti normativi, se non altro possiamo iniziare a diventare autonomi creando una comunità e costruendo insieme con gli amministratori locali, le aziende del territorio e le famiglie. Questo è quello che abbiamo tentato di fare a Vo’, a Cinto Euganeo e a Lozzo Atestino. Da giugno abbiamo costruito un patto territoriale e un’idea di scuola diffusa rivoluzionando completamente le scuole.
In genere molte delle best-practices “vivono” nei casi fortunati in cui c’è un docente particolarmente interessato e disponibile a fare lavoro in più principalmente non retribuito. Come si potrebbe passare da questa situazione di insegnante-missionario ad una prospettiva ad esempio alla Reggio Children, dove gli insegnanti hanno a disposizione ambienti adeguati e figure terze come ad esempio atelieristi e documentatori, rendendo tutto sommato normale quello che spesso è straordinario?
Non mi permetto assolutamente di dare delle ricette pronte all’uso per questo problema complesso però a mio parere se esiste una soluzione, questa non va ricercata nel macro ma nel micro. Qualunque Ministro di turno, qualunque piano per la scuola anche il più affascinante, per quanto mi riguarda fallirà. Pensiamo ad esempio al piano Nazionale della Scuola Digitale (PNSD). Qualcuno dice che è stato scritto da persone illuminate, ma sicuramente è stato scritto da pochi. Io credo che prima di tutto le soluzioni vadano cercate nel micro come scuola e poi nelle reti di scuole dove si concordano insieme gli indirizzi. Ti faccio degli esempi. Noi, tra due anni realizzeremo un servizio 0-6 veramente innovativo, nido e infanzia integrati in un edificio in legno con 3 atelier e 3 spazi sezione. Questo progetto nasce da lontano con una serie di visite a scuole modello e si costruisce attraverso un dialogo costante con il territorio per capire le esigenze e le ricchezze e poi da lì iniziare a progettare insieme ascoltando tutti soprattutto le famiglie.
Chiaramente i vincoli che abbiamo sono enormi e quello più pesante è che la maggior parte dei docenti non ha un distacco e il lavoro non viene retribuito o viene retribuito in modo molto parziale. L’innovazione si fa lo stesso, soprattutto all’infanzia e alla primaria, sfruttando al massimo le ore in compresenza e qualche progetto. Ma già dalla secondaria di primo grado l’ambiente è molto più chiuso e il docente spesso lavora poco con i colleghi. Per provare a risolvere questo problema abbiamo cominciato a lavorare su una nuova funzione strumentale chiamata “didattica e innovazione”. Abbiamo costruito delle attività tra docenti peer to peer retribuite, perché sono riuscito a riservare circa 6 mila euro per questo progetto. L’idea è che i docenti si scambino le loro pratiche migliori e si costituisca una sorta di repository di buone pratiche.
Abbiamo anche prodotto dei laboratori online per docenti che hanno registrato un’ottima partecipazione da tutta Italia. La mia percezione generale è che l’inerzia, l’incapacità di rinnovarsi e la poca cura nell’insegnamento sia veramente un problema di pochi docenti mentre la stragrande maggioranza profonde grande impegno nell’insegnamento. Il vero problema è che nonostante l’impegno l’impatto può essere basso o invisibile. Un processo di apprendimento può essere difficile da verificare e spesso mancano anche le condizioni per poter condividere il lavoro e renderlo visibile. Le scuole nel loro piccolo possono cambiare la situazione, ad esempio rimescolando i dipartimenti disciplinari. Noi ci stiamo provando creando dei dipartimenti misti “musica e creatività”, “numeri e coding”, “parole e innovazione” dando così occasione agli insegnanti di incontrarsi. Stesso metodo nei collegi dei docenti che spesso diventano workshop. Io penso che le persone si mobilitino profondamente non se le paghi di più, ma se si sentono squadra. In questo ambiente credo che l’effetto Hawthorne valga. In quell’esperimento gli operai lavoravano di più non se avevano cibo migliore, migliore illuminazione o una paga migliore ma perché avevano fatto squadra. Le scuole che funzionano sono quelle scuole dove oltre che colleghi si è prima di tutto compagni di viaggio.
Quindi Alfonso se non capisco male quello che stai cercando di fare è cercare di costruire una comunità di apprendimento non solo per i ragazzi ma anche per i docenti?
La chiamerei una comunità educante che coinvolga anche le famiglie. Quando parliamo di scuola diffusa abbiamo proprio questo in mente, una scuola grande come i colli Euganei. Non si può non coinvolgere tutti, perché la scuola è un bene di tutti. D’altra parte sicuramente la scuola deve essere fatta da professionisti. Ma mi domando, i nostri docenti sono abbastanza esperti nella didattica? La formazione docenti è estremamente disciplinare, analizzando le immissioni da concorso tra ordinario e straordinario abbiamo una buona fetta di docenti che ha poche o nessuna competenza didattica. Negli ultimi concorsi straordinari su 100 mila assunti totali un buon 30 per cento (32 mila docenti) non ha un corso post laurea sulla didattica e quindi questi insegnanti rischiano di insegnare la disciplina senza competenze didattiche. Questo aspetto è importante perché l’insegnante è un educatore prima di tutto. Nella scuola di oggi è fondamentale tenere in conto tutti i bisogni educativi e – come dice bene la Professoressa Daniela Lucangeli – “un insegnante oggi non può non conoscere anche quelli che sono i meccanismi della mente”.
Qual è allora il nodo fondamentale che la scuola deve affrontare per uscire da una didattica statica e ripetitiva?
A questo proposito vorrei citare un altro grande che è mancato questa estate, Ken Robinson, quando dice esplicitamente che la scuola rischia di uccidere la creatività , il ricco mondo interiore dei ragazzi, i sentimenti e le loro aspirazioni che alla fine soccombono perché imprigionati in una struttura quasi coercitiva. Un’altra questione fondamentale è capire se i docenti sono in grado da soli di riuscire a uscire dallo stereotipo di valutare il prodotto e non il processo. Alla fine noi tutti siamo figli di una scuola dove un bambino che aveva una buona produzione e prendeva buoni voti sarebbe diventato una persona realizzata nella vita; solo attraverso una formazione specifica ci si libera da queste idee. Il rischio è che anche nelle attività educative più innovative si continui a ragionare con i vecchi schemi. A mio avviso le scuole dovrebbero avere l’opportunità di dotarsi di un nucleo tecnico, come succede nelle aziende per figure professionali specifiche. Nella scuola non possiamo non avere uno psicologo e un pedagogista strutturato che lavora con i docenti, come non possiamo non avere contatti permanenti con il mondo della ricerca e dell’università. Anche l’università dovrebbe abbracciare questa missione ed aprirsi al mondo della scuola. Quando si parla delle STEM l’ambizione non è pensare di orientare i nostri ragazzi a intraprendere queste carriere, perché non sappiamo neanche quali saranno le professioni veramente utili nel prossimo millennio, ma abbiamo la pretesa di aver fornito quegli strumenti per poter fare la scelta migliore possibile per quel ragazzo in relazione a quelli che sono anche i suoi interessi e aspirazioni.
Come ultima domanda torno a qualcosa di personale e ti chiedo se e come il tuo essere ricercatore abbia condizionato il tuoi incarichi successivi di docente, formatore e per finire dirigente scolastico.
Io direi assolutamente si, in modo schiacciante. A me piace citare una bellissima espressione di Stephen Hawking che dice ”il fisico è colui che alza la gonna alla natura per cercare di vedere cosa c’è sotto”. Questa curiosità e nello stesso tempo forse un po’ di irriverenza che secondo me sono caratteristiche della fisica, mi hanno certamente formato. Io sono di quella generazione di fisici che sono nati fisici. Mi sono sentito fisico fin da quando ho capito che esisteva la fisica, verso gli 11 anni, prima lo ero già ma non lo sapevo. Sicuramente, sia come docente che come dirigente ho mantenuto molto dell’atteggiamento mentale tipico della ricerca, la voglia di percorrere strade nuove e anche l’umiltà di capire che le cose sono molto più complicate di quanto sembrano e che noi come sperimentatori abbiamo una visione probabilmente parziale. Quando si osserva la volta celeste magari con uno strumento che ti consente di vedere pochi steradianti per volta da una parte c’è la certezza che la propria visione sia parziale ma dall’altra c’è la speranza e la fiducia di ricostruire pian piano tutta la volta celeste. Un’altra cose che ho imparato dall’ambiente della ricerca è la capacità di mobilitare le risorse per un bel lavoro di squadra. Sono pochissimi i fisici che riescono a disegnare l’Universo su un foglio di carta, la stragrande maggioranza degli scienziati lavora in squadre anche molto numerose e continuamente in contatto tra loro. Questa idea di fare squadra per arrivare all’obiettivo l’ho imparata e vissuta all’università e sicuramente fa ancora parte di me.
Tutte le immagini sono di Alfonso D’Ambrosio
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