i suoi misteri le sue stelle
Ma sono troppe le notti passate senza te
Per cercare di contarle
Esperienza recente, per molti di noi. D’estate infatti è più facile avere occasione di guardare il cielo, lontano dai centri urbani, dove il buio è ancora degno di tale nome. E di scoprirlo, quasi inaspettatamente, pieno di stelle. Il che porta, sovente, a risultati imprevedibili. Perché magari si attivano misteriosi collegamenti interni, perché le stelle dicono qualcosa per ognuno.
Biagio Antonacci, nella canzone il cui incipit apre anche questo articolo, amalgama abilmente misteri e stelle del cielo con il sapore delle notti trascorse senza la sua stella, senza la persona amata. Con minima spesa di parole, con attraente sbrigatività poetica: edificando un tunnel, una efficace scorciatoia tra spazio esterno e spazio interiore. Un’abbondanza di misteri e di stelle, mescolata insieme ad una mancanza? Un composto decisamente agrodolce. Mi torna alla mente una strofa lapidaria di Saffo, di cui già ebbi occasione di scrivere. Mi sovviene sopratutto quel suo perentorio, lancinante
impudicamente confessato davanti allo spettacolo, indubbiamente meraviglioso, del tramonto delle Pleiadi. Diamine. La brilluccicante felicità del cielo fa tornare la voglia di essere felici, ma questa voglia è anche scomoda: può pungerti, inquietarti. Perché spazza via le illusioni, cioè tutte quelle cose che ti racconti, al solo scopo di stordirti. Proprio come dice Biagio Antonacci, capisco d’esser solo. Passano i millenni, non passano certe sensazioni. Ampio e terribili, il sentimento cosmico della solitudine.
Così le notti – confessa Biagio, con quel suo caratteristico tono tra l’intimo e il dolente – sono troppe, per essere perfino contate. Eppure non puoi rimanere lì, fermo al puro dato. Perché fa male, urta. Fa piangere, fa perdere assetto. Allora bisogna guardare il cielo, almeno certe volte. Perdersi, appunto, nel suoi misteri, smarrirsi nelle sue stelle, fino a farsi guarire da lui.
Le stelle, sono tante, sono tantissime. Forse le notti ti sembrano di più, ma a questo punto diventa una gara in cui ti sperdi, ti sganci un istante dal tuo cruccio personale. Se metti insieme le notti da solo e le stelle, alla fine le prime vengono – anche solo di sguincio – illuminate delle seconde. Mica per una volontà, per una capacità, per qualcosa che hai tu. Niente affatto. Non per come sei tu, ma per qualcosa a cui ti appoggi. Se ti appoggi, la solidità non è in te, ma la trovi nell’appoggio stesso. Ci pensa lui, a te. Son problemi suoi, a questo punto: dell’appoggio.
Le stelle non le conti, non le puoi contare (neanche Gaia le riesce a contare tutte). Nemmeno le notti le conti. Sono troppe, dunque non tenti più alcuna quadra. Non ci provi più, cedi. E il punto è forse questo: le cose umane con tutte le loro regole – così piene di buon senso – sono rette da criteri economici: non c’è spreco, non c’è esagerazione. Che tristezza, a pensarci. Tutto è numerato, ordinato, impilato in modo sobrio. Non ci si può permettere qualcosa che non si numeri, che non si conti. Tutto in giusta misura. Non c’è da fare sprechi.
Nell’universo però non funziona così. Perché le stelle sono sovrabbondanti, esondano ogni calcolo. Non si contano. Quante sono le stelle nel cielo? Tantissime. Lo sappiamo bene, lassù c’è una abbondanza che qui in Terra non ti puoi permettere. Miliardi di miliardi di miliardi…
Va bene, alla fine, nel conteggio, ti plachi. Almeno un poco, ti plachi. Perché hanno vinto loro. Ammettilo: sono ben più delle tue notti, delle tue notti di solitudine, delle tue notti di lamento. Finalmente qualcosa con cui puoi confrontarti, che ti calma. Almeno un poco, almeno un attimo.
E noi siamo figli di queste stelle, argomentavamo a giugno. Ma Biagio va oltre: parla anche dei misteri, anzi cita quelli ancor prima che le stelle. Perché nelle canzoni (e nelle poesie) ben riuscite, le parole non sono mai messe a caso. Se è vero che ci sei è una canzone assai ben riuscita, e dunque è lecito tuffarsi dentro il testo e percorrerne le parole, l’ordine delle parole, ben certi che esiste una logica. Che è ben più della logica matematica, è la logica poetica, ovvero una logica che evade allegramente dalla logica, o meglio che la “complementa” felicemente. Qualcosa che in questa rubrica, io spero, abbiamo imparato ad apprezzare.
Se le stelle si guardano, si vedono (almeno d’estate, in certe notti d’estate) i misteri invece non si vedono. Eppure si sentono, si sentono sulla pelle. Il mistero si vive, non si concettualizza. Immaginati una giovane donna di diecimila anni fa, che guarda in alto e sente quasi colarle addosso l’infinito mistero di tutto quello che ha intorno.
Più o meno come noi, adesso. Certo, sappiamo tante cose dell’Universo, eppure lo comprendiamo solo in minima parte. Se vogliamo dare fiducia alle teorie cosmologiche attuali, il 95% del tutto è fatto di energia oscura e materia oscura, ovvero faccende di cui non sappiamo proprio nulla. Non che del restante 5% si sappia tutto, beninteso, anche lì fioriscono misteri su misteri. Ci stiamo lavorando, come scienziati (ogni giorno capiamo qualcosa di più, anche grazie alla tecnologia): ma i misteri per ora rimangono. E sono tanti. Ogni astrofisico serio, lo capisce bene.
Allora guardi il cielo e tra misteri e stelle ti senti un poco confortato, c’è questo punto di fuga, quel qualcosa che evade da tutto il calcolabile, il computabile, il “ragionabile”, che è proprio quello che cerchi. Certo, non ci sono ragionamenti che plachino le mille e mille notti passate in solitudine. Che poi, a dire il vero, non basta nemmeno la presenza fisica di un’altra persona nelle tue notti per sconfiggere la solitudine, perché la faccenda è complessa e coinvolge una quantità di fattori, psichici, emotivi, ormonali, di carattere, di compatibilità, di interessi, di stato di vita. Roba che sicuramente va oltre l’astronomia.
Tu, però, osservi questo cielo e smetti di fare obiezione, smetti di protestare, forse smetti per un poco anche di lamentarti. Non che magari non avresti motivo di lamentarti, sia ben chiaro: comunque è interessante questo, che smetti.
Da lì, da questa rinuncia molto imperfetta e molto temporanea al giusto e ragionevole lamento, tutto può ricominciare. Perché il lamento blocca un poco le cose che possono capitare, mentre se perdi l’aggancio esasperatamente razionale sulle cose – che ti porta al lamento – qualcosa può capitare.
Che cosa? Non lo so, non posso dirlo. Forse niente. Forse solo un pensiero nuovo. O magari, un evento, un incontro che ti cambia la vita. Biagio, per parte sua, ci porta in questo territorio, di felice indeterminazione.
Il suo dunque l’ha fatto, ed anche bene. Noi, ora, sotto questo cielo di misteri e di stelle, ritorniamo finamente a commuoverci. Cioè, secondo l’etimo stesso della parola, a metterci in movimento.
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