Aggiornato il 28 Novembre 2024
Il paradosso di Fermi, che il titolo di questo libro enuncia in forma sintetica, scaturisce da alcune considerazioni generali su quanto sappiamo della nostra origine e del posto che occupiamo nell’Universo. La vita sulla Terra, da quando è nata quasi quattro miliardi di anni fa, si è evoluta a un ritmo sempre più accelerato: ci sono voluti due miliardi di anni per passare dagli archeobatteri ai primi esseri unicellulari eucarioti, forse un altro miliardo di anni per produrre i primi organismi pluricellulari, mezzo miliardo di anni per le piante superiori, i rettili, i mammiferi. L’evoluzione culturale e tecnologica dell’uomo ha seguito ritmi ancora più accelerati: l’invenzione della ruota ha richiesto centinaia di migliaia di anni, ma solo poche migliaia sono state sufficienti per passare dalla ruota alla locomotiva e al biplano, e meno di un secolo per passare da questi allo sbarco sulla Luna e all’esplorazione del Sistema Solare con sonde automatiche. Il fatto che dopo quattro miliardi e mezzo di anni dalla formazione della Terra siamo giunti a questo punto suggerisce che verosimilmente questo è l’ordine di grandezza del tempo richiesto per compiere tale evoluzione; e poichè il progresso dell’astronomia ci ha insegnato, da Copernico in poi, che la Terra non occupa in alcun modo un posto privilegiato nell’Universo, non c’è ragione di credere che un’evoluzione analoga non possa essere avvenuta anche altrove. L’esistenza di pianeti extrasolari, che all’epoca di Fermi era solo una congettura (anche se considerata altamente probabile), è ora un fatto assodato: negli ultimi trent’anni ne sono stati scoperti più di quattromila, e sappiamo che solo nella nostra Galassia ne esistono centinaia di miliardi, di cui una percentuale non piccola deve avere caratteristiche fisiche simili alla Terra: miliardi di possibili culle per forme di vita aliene. E siccome il nostro Sole è una stella relativamente giovane (l’Universo ha più di tredici miliardi di anni), non solo ci dovrebbero essere in giro una quantità di civiltà extraterrestri, ma molte di queste dovrebbero essere molto più antiche e progredite della nostra e aver raggiunto livelli tecnologici che noi neppure riusciamo a sognare, e in particolare padroneggiare le tecniche del volo interstellare. E allora come mai non vediamo le loro astronavi? Come mai i nostri radiotelescopi non captano le trasmissioni con cui essi comunicano tra di loro, e magari cercano di comunicare anche con noi? Se l’universo brulica di alieni… dove sono tutti quanti?
Stephen Webb raccoglie e illustra in questo libro settantacinque possibili soluzioni a questo paradosso, proposte da diversi scienziati da quando esso fu formulato da Enrico Fermi nel 1950, dividendole in tre categorie: 1) non è vero che non ci siano tracce di presenze aliene, basta saper guardare con attenzione; 2) gli alieni esistono, ma per qualche motivo non siamo in grado di rilevare la loro presenza; 3) le civiltà extraterrestri non esistono, cioè noi siamo l’unica forma di vita intelligente nell’Universo.
Nella prima categoria, che Webb intitola Loro sono (o sono stati) qui, rientrano le affermazioni di chi crede di individuare un’origine aliena negli oggetti volanti non identificati (UFO), in certi prodotti delle civiltà del passato (ad esempio le piramidi, Stonehenge) o in strutture visibili sulla Terra (i cerchi nel grano) e su altri pianeti (la “faccia” su Marte). Tuttavia l’autore ritiene che nessuno degli argomenti proposti in questo campo abbia mai costituito una prova convincente dell’esistenza di civiltà extraterrestri, e quindi non pensa che la soluzione del paradosso possa essere trovata in questa direzione.
La seconda categoria di soluzioni cerca di dimostrare che gli alieni esistono, ma ancora non li abbiamo visti, nè sentiti. Ogni soluzione di questo tipo deve giustificare i motivi per cui, se civiltà extraterrestri esistono, non solo non ne abbiamo ancora rivelato la presenza qui (sulla Terra o nel Sistema Solare), ma non siamo riusciti neppure a rilevare a distanza i segni della loro attività . Qui si entra in un campo molto ipotetico, perchè le considerazioni devono basarsi necessariamente sulla previsione di quali potrebbero essere le caratteristiche di tecnologie, culture e condizioni sociali di civiltà completamente differenti e molto più avanzate della nostra. Webb osserva che, da un punto di vista strettamente fisico, non sembrano esserci impedimenti alla possibilità di viaggi interstellari, ma i tempi necessari sarebbero ovviamente molto lunghi: non è chiaro se una civiltà , anche potendolo, avrebbe motivazioni sufficienti per intraprendere una colonizzazione della Galassia, e per perseverare in questa impresa per le migliaia (o forse milioni) di anni che essa potrebbe richiedere. Per quanto riguarda le possibilità di una rilevazione a distanza, occorre notare che tutti i tentativi che sono stati fatti in questo senso (e che sono catalogati sotto la sigla SETI, Search for Extra-Terrestrial Intelligence) inevitabilmente peccano di antropocentrismo, cioè assumono che i mezzi con cui una ipotetica civiltà aliena potrebbe manifestare (di proposito o involontariamente) la propria presenza siano simili a quelli che usiamo noi ora. Ad esempio la maggior parte dei tentativi di “ascolto” di trasmissioni extraterrestri si è concentrata nel campo delle onde elettromagnetiche (soprattutto radio): ma questa è una tecnologia che noi utilizziamo da appena due secoli, ed è possibile che in un prossimo futuro anche noi la abbandoneremo. Nonostante le grandi incertezze di argomentazioni di questo tipo, Webb ritiene che sia difficile giustificare “il grande silenzio” solo ricorrendo a spiegazioni che rientrano in questa categoria, perchè non è ragionevole supporre che esse si possano applicare a tutte le civiltà esistenti, con la grande varietà di caratteristiche che essere devono avere.
La terza categoria di argomenti risolve il paradosso giungendo alla conclusione che gli alieni non esistono: ciò non significa necessariamente che l’Universo non ospiti altre forme di vita, ma che, se queste esistono, non si sono sviluppate fino al punto di produrre una tecnologia in grado di costruire astronavi e radiotelescopi; in altre parole noi saremmo l’unica civiltà tecnologicamente evoluta dell’Universo. Questo tipo di spiegazione non piace molto agli astronomi, per i quali rinunciare al “principio di mediocrità ” (la Terra è un pianeta del tutto comune, in orbita attorno a una stella del tutto normale, in una galassia come tante, ecc.) ha molto il sapore di un ritorno all’astronomia tolemaica. Tuttavia se si esaminano nel dettaglio le condizioni astronomiche che hanno permesso la nascita della vita e il suo sviluppo fino ai nostri giorni, si vede che formano una combinazione di “colpi di fortuna” che non sembra possa essere molto frequente: ad esempio è necessario un pianeta dotato di moti convettivi interni (tettonica a zolle) che producano un campo magnetico in grado di proteggere la superficie dai raggi cosmici; che si muova su un’orbita non troppo ellittica e sufficientemente stabile; che sia dotato di un’atmosfera che produca un effetto serra adeguato; è necessario anche un satellite (la Luna) di massa abbastanza grande da stabilizzare la direzione dell’asse di rotazione del pianeta, ma non troppo grande, altrimenti le maree produrrebbero effetti altrimenti nocivi; ecc. ecc. A conclusioni analoghe si perviene studiando l’evoluzione biologica, che è stata caratterizzata da eventi altamente improbabili e che non sembrano rivestire alcun carattere di necessità dal punto di vista della selezione naturale: la nascita degli eucarioti, la nascita di esseri pluricellulari, lo sviluppo dell’intelligenza, della coscienza, del linguaggio, della scienza e della tecnologia (per ciascuna di queste conquiste, si potrebbero citare innumerevoli controesempi di organismi che sembra se la cavino benissimo anche senza di esse). Il fatto che sulla Terra questi sviluppi favorevoli si siano effettivamente verificati non costituisce in alcun modo un argomento statistico a favore del fatto che siano frequenti, o anche solo possibili, su altri pianeti. La nostra esistenza costituisce infatti un potentissimo effetto di selezione: noi possiamo “vedere” solo una Terra e un’evoluzione passata tali da rendere possibile la comparsa di noi stessi come osservatori coscienti: se le cose fossero andate in altro modo, oggi non ci sarebbe nessuno a porsi domande simili.
Quest’ultimo capitolo è forse la parte più interessante del libro di Webb perchè, al di là della discussione sul paradosso di Fermi, offre un punto di vista inconsueto sull’evoluzione della vita e dell’uomo e sui suoi sforzi per costruire una cultura e una scienza; e, mostrandoci la fortunata concatenazione di eventi e il delicato equilibrio di fattori che l’hanno resa e la rendono possibile, ci fa forse amare un po’ di più la nostra posizione su questo piccolo granello di polvere nell’Universo. La trattazione accosta in modo stimolante problemi e scoperte che appartengono ai campi dell’astronomia, della fisica, della chimica e della biologia; uno stimolo che è accresciuto dal ricco corredo di suggerimenti bibliografici.
Abbiamo parlato di:
Se l'universo brulica di alieni... dove sono tutti quanti?
Stephen Webb
Traduzione di Alessia Fabbri
Sironi Editore, 2018
494 pagine, brossurato – € 25
[…] Gli alieni e il paradosso di Fermi (edu.inaf.it) […]