Questo mese, la nostra ospite è una sociologa la cui passione è applicare alla didattica approcci provenienti dal campo della giustizia sociale. Louise Archer è Professoressa di Sociologia dell’educazione presso la University College London, nel Regno Unito, dove si occupa di studiare come la ricerca accademica possa effettivamente ‘fare la differenza’ nelle politiche educative e nella pratica della formazione, specialmente nelle discipline STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica).
Puoi parlarci dei tuoi interessi di ricerca e di cosa ti ha portato fin qui?
La mia ricerca si concentra sul cercare di comprendere e affrontare le disuguaglianze formative, in particolare in relazione all’accesso, al coinvolgimento e alla partecipazione dei giovani alle discipline STEM. Mi sono occupata di identità e disuguaglianze formative per molti anni, a partire dalla mia laurea e dal dottorato di ricerca nel campo della psicologia sociale, in cui mi sono concentrata sulle esperienze scolastiche degli studenti musulmani britannici.
Quando e come hai iniziato a occuparti di didattica della scienza?
Ho iniziato a concentrarmi sulla didattica della scienza intorno al 2009, quando è iniziato il nostro studio ASPIRES (che studia le aspirazioni dei bambini verso la scienza e diversi tipi di carriere). àˆ stato in gran parte grazie al mio collega, il professor Jonathan Osborne, uno dei massimi esperti di didattica della scienza, che mi ha proposto di collaborare, portando il mio approccio sociologico e il mio interesse per l’identità all’analisi delle diseguaglianze nella partecipazione alla scienza.
Quali pensi che siano le sfide principali per la didattica della scienza oggi, nel Regno Unito e a livello globale?
Esistono molte sfide per la didattica della scienza, in particolare come preparare la prossima generazione di giovani, fornendo loro sia comprensione che abilità scientifiche adatte ad affrontare le numerose sfide sociali e ambientali che il pianeta deve fronteggiare, e per consentire loro di essere adeguatamente alfabetizzati scientificamente per andare incontro alle scelte e decisioni che si troveranno davanti nel corso della loro vita.
La nostra ricerca si concentra in particolare sul cercare di fornire nuovi modi per comprendere perchè alcuni schemi disuguali di partecipazione alla scienza (ad esempio in termini di razza, genere e classe sociale) siano così radicati e difficili da cambiare, nonchè il ruolo che la stessa didattica della scienza gioca nel crearli e dare loro sostegno.
Alcuni anni fa, insieme ai tuoi colleghi, hai sviluppato il concetto di ‘capitale scientifico’. Puoi parlarcene e spiegarci perchè è importante?
Il concetto di capitale scientifico parte dal lavoro del sociologo francese Pierre Bourdieu e lo estende. àˆ uno strumento per raggruppare concettualmente tutte le risorse legate alla scienza, o ‘capitale’ (economico, culturale e sociale) che ciascuno possiede.
La nostra ricerca ha mostrato come il capitale scientifico sia correlato alle aspirazioni e alla partecipazione dei giovani relative alla scienza: quando il capitale scientifico dei giovani viene valorizzato e sfruttato in un contesto formativo, è molto più probabile che questi sviluppino una ‘identità scientifica’ (ovvero che riescano a vedere sè stessi e a essere riconosciuti dagli altri in termini vicini alla scienza) e che scelgano di proseguire con un percorso scientifico dopo i 16 anni (ovvero al termine dell’istruzione scientifica obbligatoria in Inghilterra).
Abbiamo scoperto che questo concetto è utile come strumento esplicativo e abbiamo sviluppato ‘misure’ empiriche che ci aiutano a capire come alcuni interventi formativi possono aiutare a sostenere il capitale scientifico dei giovani in classe. In particolare, però, vediamo il valore del capitale scientifico come strumento di riflessione, che abbiamo utilizzato, insieme a insegnanti delle scuole primarie e secondarie, per sviluppare un approccio pedagogico per insegnare le scienze in maniera più inclusiva, in modo che sempre più giovani possano trovare una connessione con la scienza e arrivare a vederla come qualcosa che sia ‘per loro’.
In che modo il capitale scientifico estende il concetto originale sviluppato da Bordieu?
Il capitale scientifico comprende tre dei concetti originali di Bourdieu: il capitale culturale (conoscenza, comprensione, qualifiche), il capitale sociale (contatti sociali, reti di relazioni) e l’habitus (disposizioni sociali e modo di ‘sentire’ il mondo).
Mentre Bourdieu si è concentrato maggiormente sulle arti, noi abbiamo esteso le sue idee a forme legate alla scienza di capitale culturale (ad esempio: conoscenza, abilità , comprensione e know-how relativi alla scienza), capitale sociale (ad esempio: conoscere persone che fanno un lavoro legato alla scienza, avere familiari che parlano di scienza e ti incoraggiano a continuare su questo percorso) e habitus (ad esempio: atteggiamenti, disposizioni e comportamenti vicini alla scienza, ad esempio l’uso di kit scientifici, letture scientifiche nel tempo libero, eccetera).
Quale pensi che possa essere il ruolo dell’astronomia in questo contesto? Come può aiutare la nostra disciplina a ‘fare la differenza’ nella didattica scientifica, coinvolgendo studenti di ogni provenienza ed estrazione?
Nel nostro studio longitudinale ASPIRES, in cui abbiamo seguito i giovani con sondaggi su grande scala e interviste approfondite (intervistando anche i loro genitori nel frattempo), abbiamo scoperto che l’astronomia e lo spazio sono spesso argomenti popolari e coinvolgenti.
Tuttavia, abbiamo anche scoperto che, quando i ragazzi sono più grandi, l’insegnamento della fisica a scuola contribuisce molto a limitare il coinvolgimento e scoraggiare i giovani a continuare, spesso fornendo l’idea che la fisica sia qualcosa di molto difficile, più difficile della maggior parte delle altre materie e solo per persone davvero eccezionali (un po’ come il personaggio Sheldon della sitcom statunitense ‘The Big Bang Theory‘). Questo – insieme ad alcune pratiche pedagogiche ed educative comuni che tendono a chiudere le porte, identificate nella nostra ricerca – finisce per persuadere molti ragazzi (ma soprattutto ragazze) del fatto che non sono ‘abbastanza bravi’ per continuare con la fisica a livelli più avanzati, anche quando sono molto interessati e ottengono buoni voti in questa materia.
Pensiamo che alcune aree della fisica, come l’astronomia, possano fare tanto per aiutare a correggere questa tendenza. Parte della risposta sta nel riflettere criticamente su quante delle nostre pratiche, date per scontate in questo contesto, facciano effettivamente parte del problema, anzichè presumere che il problema sia dovuto alle ragazze (ad esempio, a causa della mancanza di fiducia, eccetera).
Vuoi parlarci di qualcun altro dei tuoi progetti in corso?
Oltre al progetto ASPIRES – che monitora i giovani di età compresa tra 10 e 23 anni attraverso oltre 48mila sondaggi e oltre 700 interviste a 50 giovani e ai loro genitori, monitorati nello stesso periodo di tempo – al momento abbiamo diversi altri studi di ricerca.
Il progetto Youth Equity and STEM è una collaborazione quinquennale di ricerca e sviluppo tra Regno Unito e Stati Uniti che mira a identificare e comprendere cosa costituisca una pratica equa in contesti di apprendimento scientifici extra-scolastici quali musei della scienza, zoo, circoli STEM. Questo progetto propone una gamma di strumenti e risorse per insegnanti ed esperti dell’apprendimento STEM informale, per aiutarli ad adottare pratiche inclusive e sostenere i giovani provenienti da comunità sotto-rappresentate ed emarginate, coinvolgendoli nelle materie STEM.
Il progetto Primary Science Capital Teaching Approach è un progetto di ricerca e sviluppo in cui si lavora insieme a insegnanti della scuola primaria per co-progettare e diffondere un approccio all’insegnamento basato sul capitale scientifico all’interno delle scuole primarie.
Il progetto Making Spaces è un progetto di ricerca e sviluppo in collaborazione con tre makerspace(1)Un makerspace è un centro comunitario che fornisce tecnologia, attrezzature per la produzione e opportunità formative al pubblico, ndr, per studiare come i makerspace possono essere più inclusivi e supportare una varietà di giovani diversi a impegnarsi con le STEM in modi che sostengano la giustizia sociale e ambientale.
Quali sono le parti più entusiasmanti e le più difficili nel tuo lavoro?
Gestire quattro grandi studi è sicuramente una sfida in termini di tempo, risorse ed energie richieste! Anche la pandemia ha posto molte sfide ai nostri progetti. Ma ho il privilegio di avere un lavoro che è costantemente interessante e che sembra stia facendo la differenza. Mi piace imparare dalle nostre collaborazioni con altri professionisti, con i decisori politici e con i giovani stessi, e mi piace particolarmente analizzare i dati e scrivere articoli e rapporti di ricerca.
Ci sono scienziati, pensatori, autori o altre persone speciali che ti hanno influenzato particolarmente in questo percorso?
Vengo spesso ispirata dal lavoro degli altri, in particolare dai colleghi che lavorano nel campo della didattica scientifica e della giustizia sociale. Ho avuto anche l’enorme beneficio di avere colleghi meravigliosi e incoraggianti nei luoghi in cui ho lavorato.
Insieme ai tuoi collaboratori, hai scritto diversi libri sulla didattica e sulle disuguaglianze, soprattutto in termini di genere, origine etnica e classe sociale. Ce ne è qualcuno che consiglieresti in particolar modo a educatori e divulgatori della scienza?
Il libro che ho scritto insieme a Jen DeWitt si concentra nello specifico sulla comprensione delle aspirazioni scientifiche di bambini e ragazzi, quindi quello potrebbe essere uno dei più rilevanti, insieme a una raccolta di prossima uscita, prevista entro la fine dell’anno, redatta insieme a Henriette Tolstrup Holmegaard di Copenhagen, sul tema delle ‘identità scientifiche’, che mette a sistema una vasta gamma di studi sull’argomento.
Più in generale, in termini di comprensione delle disuguaglianze sociali e della formazione, suggerirei il libro che ho scritto insieme a Heather Mendick e Sumi Hollingworth su ‘Urban Youth and Schooling‘.
Pensi che ci siano abbastanza contatti e scambi tra i ricercatori in didattica della scienza, da una parte, e gli scienziati, gli insegnanti e i divulgatori scientifici dall’altro? Ci sono aree in cui questa collaborazione potrebbe migliorare?
Abbiamo scoperto che le nostre collaborazioni con insegnanti di scienze e professionisti sono inestimabili: non riesco davvero a pensare di poter fare un buon lavoro di ricerca senza queste collaborazioni partecipative!
Penso che ci sia sempre spazio per una maggiore cooperazione, co-apprendimento e co-progettazione della ricerca. I ricercatori non dovrebbero mai essere una ‘isola’.
Note
↑1 | Un makerspace è un centro comunitario che fornisce tecnologia, attrezzature per la produzione e opportunità formative al pubblico, ndr |
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