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Sebastiano Moruzzi: pensare come una comunità di ricerca

Nuova intervista con il filosofo Sebastiano Moruzzi su ricerca e didattica.

Aggiornato il 23 Settembre 2021

Ascolta la chiacchierata in podcast qui sotto o anche su Apple Podcast o Google Podcast

Oggi siamo con Sebastiano Moruzzi professore associato presso il Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna per parlare di filosofia a scuola e di come queste pratiche costituiscono approcci interessanti alla scienza. Sebastiano è laureato in Filosofia a Bologna e dottore di ricerca in Filosofia del Linguaggio all’università del Piemonte Orientale. Dopo il dottorato ha lavorato presso il centro di ricerca di Arché presso la St Andrews in Gran Bretagna e dal 2007 in poi in Italia. Sebastiano si occupa di un sacco di cose interessanti: ontologia delle scienze applicate, relativismo e contestualismo, discorsi sulla conoscenza e su ognuno di questi temi potremmo fare un’intervista bellissima però oggi vorrei soffermarmi su un tema per noi importante ovvero la filosofia con i bambini e i ragazzi. Sebastiano è anche co-fondatore di Farfilò che è un progetto interdisciplinare di ricerca che coinvolge filosofia e pedagogia nato per una elaborare una proposta educativa in cui la filosofia è declinata per l’infanzia con uno spinoff operativo che produce e mette in opera attività per le scuole. Sebastiano è anche fondatore e coordinatore con Carlotta Capuccino di AIòN, gruppo di ricerca interdisciplinare sulla didattica della filosofia e le pratiche filosofiche, afferente al Dipartimento di Filosofia e Comunicazione con un occhio sempre all’innovazione didattica per l’insegnamento della filosofia e si propone di indagare le modalità e i contenuti per sviluppare nuove pratiche filosofiche per le diverse età. Oltre alle pubblicazioni prettamente accademiche Sebastiano ha pubblicato 2 libri. Vaghezza: Confini, cumuli e paradossi nel 2012 e uno recentissimo pubblicato ad ottobre scorso con Filippo Ferrari, Verità e post-verità dall’indagine alla post indagine.

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Cominciamo con una domanda generale così ci disegni un panorama. E’ possibile far praticare la filosofia a bambini e ragazzi? quali sono le metodologie più efficaci?
E’ sicuramente possibile perché è attuale e accade ed è quindi logicamente possibile. E’ anche molto facile e abbiamo avuto esperienze molto positive in cui i bambini hanno fatto dei laboratori con ottimi risultati, mentre, giusto per fare un paragone, è molto più difficile farlo all’università dove insegno. I metodi sono tanti e diversi: alcuni sono più dialettici ovvero basati maggiormente sull’argomentazione e mentre altri sono più attenti all’aspetto relazionale e centrano il focus sulla discussione per risolvere un problema comune.
Noi come come gruppo di ricerca abbiamo privilegiato sempre la seconda strada curando principalmente gli aspetti relazionali perché pensiamo che sia un elemento fondamentale dal punto di vista educativo. Questo non significa che non ci sia argomentazione ma viene sviluppata in termini non individualistici. Il metodo da cui abbiamo preso ispirazione e che abbiamo modificato e interpretato è quello della comunità di ricerca che costituisce la base della Philosophy for Children. Uso parole inglesi non per anglofilia ma perché questo è il nome corrente usato per fare riferimento a un metodo inventato dal filosofo Matthew Lipman alla fine degli anni ‘70. Lipman aveva un’esigenza di tipo sociale: negli Stati Uniti erano anni di grossa conflittualità su diversi temi primo tra tutti la guerra in Vietnam. Lipman osservava che molte persone erano inadeguate ad affrontare questo conflitto di idee e opinioni e si pose il problema di cambiare il sistema educativo. Per fare questa operazione scelse come disciplina la filosofia perché la pratica filosofica che aveva in mente avrebbe portato un cambiamento del modo in cui la comunità si regola: attraverso il ragionamento e attraverso un dialogo argomentativo con grande attenzione al prossimo e all’ascolto degli altri.

Quindi la filosofia come uno strumento di trasformazione sociale?
Si assolutamente! Per Lipman questa era una esigenza fondamentale anche se lui era un filosofo e insegnava logica a New York. L’esigenza è nata chiaramente per una questione sociale infatti poi molti dei suoi primi allievi, studenti universitari o dottorandi, andavano a fare gli esperimenti nelle scuole del Bronx. C’è un video molto interessante che mostra le grandi difficoltà che ebbero.

Ieri sera ho letto una lunga intervista a Lipman e mi è sembrato di capire che si è finito di innamorare della filosofia leggendo i libri di John Dewey che poi c’è stata una famosa chiacchierata di persona quando si stava dottorando e poi la corrispondenza. Dal momento che Dewey è un caposaldo per chiunque si occupi di educazione oggi perché per primo ha incarnato alcuni ideali di democrazia ti chiedo se e in che modo le idee di Dewey hanno aiutato a costruire le strutture della Philosophy for Children.
A mio avviso il contributo fondamentale è stato quello di pensare l’insegnamento della filosofia in maniera attiva e non semplicemente come un momento in cui si trasmettono delle teorie. Il modello di Dewey era quello delle scienze ovvero la comunità di ricerca e quindi  imposta l’apprendimento come un momento in cui i bambini sono coinvolti in prima persona nel risolvere un problema. Questo è il fulcro da cui poi anche Lipman organizza tutto il curricolo della Philosophy for Children. Per spiegare in pratica come funziona per prima cosa bisogna pensare che le attività sono articolate lungo un anno scolastico e con studenti di ogni ordine fin dalla scuola dell’infanzia. L’idea non è quella di andare attraverso la presentazione di teorie filosofiche, come si fa ad esempio in Italia al liceo, ma di proporre dei laboratori di discussione che abbiano una loro dinamica. I problemi vengono posti dai dai bambini dopo uno stimolo. Lo stimolo può essere ad esempio leggere insieme dei testi che tirano fuori delle domande e poi scegliere insieme qual è la domanda che interessa di più. L’idea è che la comunità di ricerca, ragazzi e facilitatore, va avanti per trovare una risposta a questa domanda. Questo processo è strutturato, può richiedere tanto tempo e a volte nel corso del tempo anche la domanda può cambiare. Dewey sicuramente ha fatto capire a Lipman che la filosofia deve essere insegnata in questa maniera attiva. E’ uscita di recente la traduzione dell’autobiografia di Lipman in italiano: secondo me è molto bella da leggere perché fa vedere come questa esigenza sia nata da una sua crisi personale, di un uomo tra le due guerre e non troppo a suo agio nel suo ambiente accademico.

Quanto questo approccio trasversale alle discipline può essere utile anche per una educazione alle STEM, al metodo di ricerca scientifico e per avvicinarsi anche a livello metacognitivo al modus operandi di una comunità di ricerca scientifica? Ti chiedo anche se questa via è stata già esplorata in classe con i ragazzi e che risultati avete avuto.
Allora io credo proprio di sì. I miei collaboratori hanno fondato una associazione che si chiama Filò come spin off del gruppo di ricerca universitario e stanno lavorando in progetti scolastici ed extrascolastici portando avanti pratiche filosofiche con i ragazzi. Da diversi anni collaborano con la Fondazione Golinelli e proprio la fondazione ha chiesto loro di lavorare in questa direzione e di utilizzare questo metodo in relazione agli esperimenti in laboratorio che vivono all’interno dei percorsi STEM della fondazione. La Philosophy for Children può essere utile sia per discutere l’impostazione di un esperimento sia a posteriori per capire come è andata e quali sono le criticità o i problemi emersi.
In generale il metodo è ispirato al metodo scientifico e quindi mi sembra molto naturale che possa funzionare in questa direzione; però questa operazione richiede un cambiamento di paradigma educativo. Per spiegarmi vi parlo di un progetto europeo che si chiama FEDORA che è stato finanziato a Bologna ed ha la professoressa Olivia Levrini, docente di didattica della Fisica presso il dipartimento di Fisica, come PI (Principal Investigator) del progetto. Il problema centrale è il fatto che nelle scuole vengono insegnate le discipline STEM in maniera non allineata rispetto a come adesso viene fatta ricerca. Ci sono molti temi di ricerca che richiedono interdisciplinarietà: il caso eclatante dei cambiamenti climatici ma anche ad esempio l’intelligenza artificiale. Questo tipo di ricerca richiede una interdisciplinarità costitutiva mentre invece le discipline scolastiche sono spesso insegnate a scuola in maniera separata costruendo un’idea statica delle scienze. Il progetto è quello di riallineare l’insegnamento nelle scuole con la ricerca accademica con l’idea che le due cose vadano insieme. Olivia mi ha coinvolto nel progetto per l’uso che sto facendo di queste tecniche di facilitazione filosofica oltre ad un aspetto che riguarda le ontologie delle scienze.

Questo è un problema trasversale che tutti quelli che si occupano di didattiche attive o “innovative” devono affrontare. Vedo gli stessi problemi lavorando ad esempio con pratiche costruzioniste dove è necessario modificare la percezione di che cosa significa insegnare e su questo noi stiamo sperimentando diversi approcci. Per quanto riguarda invece i saperi aggregati attorno alle domande come li pensa Morin, c’è sicuramente una forte esigenza ma forse c’è anche qualche resistenza all’interno delle università perché si vanno a minare strutture di potere consolidate.
Assolutamente c’è un problema anche nelle università. Ad UniBO abbiamo istituito dei centri di ricerca universitari sui cambiamenti climatici e l’intelligenza artificiale per tentare di sbloccare questi limiti però abbiamo dei problemi, forse il discorso diventa noioso ma la sola esistenza dei settori scientifici disciplinari costituisce una barriera alla ricerca interdisciplinare in  università. Ci sono dei segnali positivi perché stanno nascendo linee di ricerca sull’interdisciplinarità che non esistevano ma che avranno bisogno di un po’ di tempo per affermarsi e diventare sistema.

Rispetto alle pratiche filosofiche con i ragazzi quale è l’aspetto più interessante sia per i docenti con cui lavori sia direttamente per i ragazzi?
Per quanto riguarda i docenti certamente c’è il fatto di immaginarsi una didattica in cui è necessario riposizionare il proprio ruolo e questo non è assolutamente una cosa facile. I docenti in classe assumono molti ruoli, ci sono pubblicazioni in cui si elencano fino a 18 ruoli che un docente può assumere. Il ruolo classico è quello del trasmettitore che soprattutto all’università forse rimane l’unico possibile mentre nelle altre scuole c’è stata più sperimentazione. In queste pratiche filosofiche chiediamo al docente di assumere il ruolo di facilitatore e in questo caso non basta conoscere il contenuto della disciplina ma bisogna anche cambiare il modo di relazionarsi con gli studenti e acquisire alcune tecniche di moderazione. Anche questa è una competenza che bisogna acquisire e per fare questo c’è bisogno di pratica assistita ovvero bisogna lavorare insieme a un facilitatore più esperto, osservare come vengono gestite le situazioni. Ci sono alcune pubblicazioni, a mia conoscenza in inglese, che guidano nella facilitazione di questo tipo di laboratori soprattutto i libri pubblicati da Peter Worley della Philosophy Foundation che per me costituiscono un punto di riferimento e si riflettono nel modo in cui io conduco i laboratori. Questi lavori sono pieni di spunti pratici su come interagire negli scambi con gli studenti per far funzionare la discussione. Questa è la cosa più complicata per i docenti e anche la più importante. Per questo la formazione iniziale decisiva e dovrebbe essere più estesa rispetto a quello che riusciamo  a proporre oggi prevedendo un affiancamento di almeno un anno. Per quanto riguarda gli studenti ci sono due punti molto importanti. Il primo è imparare ad ascoltare: ho notato in classe che tutti sono molto entusiasti nel voler dire la loro opinione mentre è molto difficile all’inizio riuscire a farli ascoltare e magari continuare un discorso che era stato portato avanti dagli altri e costruire insieme un discorso comune. Quando questo processo funziona poi la classe diventa un gruppo che veramente ragiona insieme.

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Poi una cosa che da filosofo mi piace fare è quella di esporre ai bambini dei problemi di cui non erano a conoscenza. In questo senso io prendo un po le distanze dal metodo di Lipman perché in questo modello si considerano unicamente le domande che vengono dai bambini a seguito di uno stimolo. A me piace invece anche introdurre, come fa anche Peter Worley, i classici rompicapi della filosofia ad esempio il libero arbitrio, il futuro, la natura del tempo, i dilemmi etici, i paradossi che secondo me hanno un valore intrinseco nella nostra tradizione culturale e si possono formulare in modo che siano accessibili a diverse età. E’ un bene che ci si metta ragionare su queste questioni ed è difficile che si arrivi da soli a formulare il problema, anche se a volte accade. In queste circostanze assumo quindi un ruolo più attivo. Nella mia facilitazione mescolo la Philosophy for Children con un approccio socratico che è molto più attivo e in cui si individua subito il punto debole di una idea per rilanciare la discussione e non per confutare l’altro. Questa facilitazione è comunque ben diversa da alcuni modelli di debate che invece si basano puramente sull’esercizio della confutazione delle idee altrui. Alcune volte c’è necessità di intervenire perché può capitare che ognuno dica la propria opinione e con la retorica che ogni opinione è valida sostanzialmente non si arriva a nessuna sintesi e non c’è un vero confronto. Una facilitazione socratica alle volte aiuta a confrontarsi e di conseguenza a raggiungere una sintesi. Questo non è un problema solo dei ragazzi ma un tratto societario. Il libro post verità che citavi analizza proprio questo problema, il barricarsi dietro il proprio punto di vista.

Quali sono le differenze principali e i punti di contatto se ce ne sono tra il debate e l’approccio filosofico che ci hai raccontato?
La popolarità del debate è comprensibile e anche giusta perché il debate ha introdotto e sdoganato questa idea delle competenze argomentative e del pensiero critico. Il debate è un modo molto lineare per sviluppare queste competenze perché i singoli o i team si affrontano in un agone in cui strenuamente tenteranno di difendere la propria tesi e di confutare la tesi dell’opponente.

Un esperimento di polarizzazione…
Si ed infatti è questo il motivo per cui non amo questa pratica. In questo modo possono essere insegnate delle tecniche di retorica e di dialettica e questo è sicuramente una cosa utile però rischia di di far pensare che la discussione sia una gara in cui l’obiettivo è vincere mentre per me invece l’obiettivo è quello di scoprire insieme la verità, che è ben diverso.
Dato l’estremo grado di fallibilità che ha l’essere umano l’idea di vincere una disputa assolutamente non garantisce nulla. L’idea sarebbe quella di usare i propri strumenti migliori per riuscire a trovare una soluzione a un problema. A volte può essere utile mettere in campo queste queste tecniche argomentative per far venire fuori i problemi ma se si limita a questo “esercizio” l’attività rimane incompleta come forma di allenamento alla tecnica di ricerca. Ho la preoccupazione che un debate puramente dialettico vada a spostare su un piano “agonistico” una questione che invece è molto più profonda ovvero il trovare delle soluzioni a dei problemi attraverso delle tecniche razionali di indagine. Questo è nel migliore dei modi il funzionamento della scienza, però la scienza è un’impresa assolutamente collaborativa con degli aspetti certamente competitivi però si lavora insieme per trovare la soluzione a beneficio di tutti. Se invece diventa solamente una questione agonistica si perde l’aspetto della comune ricerca della verità.

Sicuramente il grande successo che sta avendo il debate  a scuola è anche nel fatto che le competenze sono ben definite e allenabili. Quello che da profana mi lascia perplessa è che nel debate classico la posizione non viene scelta dai ragazzi ma assegnata quindi ci si trova a difendere posizioni che magari non si condividono.
sagoma_postitFa parte dell’allenamento che devo dire assomiglia proprio a quello dei Sofisti. Platone era sconvolto proprio dall’idea che per questa scuola non fosse tanto importante che cosa difendere ma la difesa stessa. Questa pratica se portata all’estremo non ha un grande valore però può certamente essere utile se viene vista come allenamento all’interno di un percorso educativo più ampio.
Tieni anche conto che la maggioranza dei manuali sul critical thinking sono declinati in un’ottica simile al debate: l’idea principale è l’argomentazione e l’essere in grado di sviluppare individualmente in maniera efficace una propria linea argomentativa per difendere le proprie tesi. All’università adesso abbiamo attivato due insegnamenti di competenze trasversali uno appunto il nell’ottica di dare degli strumenti argomentativi, il secondo, che è più originale è sul pensiero dialogico e si chiama appunto dialogic literacy. Qui si vuole insegnare a dialogare e sviluppare le competenze per riuscire a portare avanti una argomentazione collettiva. Chiaramente questa idea è più complessa perché presuppone sostanzialmente la prima però viene implementata ragionando insieme come gruppo. Utilizziamo la stessa struttura delle sessioni che proponiamo con la filosofia con i bambini.

Questo forse dal punto di vista della didattica delle STEM è la cosa più interessante: indagare il fatto che la conoscenza si costruisce con una collettività. La comunità di ricerca scientifica è una struttura molto complessa e sicuramente va indagata da punti di vista diversi con diversi strumenti didattici. Tutti gli strumenti che vanno in questa direzione sono molto interessanti anche pensando di mescolare in classe diversi approcci. Secondo te potrebbe essere utile utilizzare strumenti come PlayDecide per stimolare questo genere di competenze(1)PlayDecide è un gioco di carte che stimola discussioni di gruppo semplici, rispettose e basate sui fatti?
Dopo che mi hai fatto vedere Play Decide mi sono ricordato che quando stavo scrivendo un progetto di ricerca europeo Formica Blu ci aveva proprio consigliato di usare questo strumento per la divulgazione del progetto. Devo dire che all’epoca non lo avevo approfondito ma adesso che l’ho fatto mi sembra molto valido. Diciamo che in piccolo si toccano gli stessi nodi che tocca la Philosophy for Children. Ci sono tre fasi: la fase iniziale in cui ognuno costruisce un proprio punto di vista usando queste carte, selezionando le informazioni ai problemi che interessano di più, dopodiché c’è la fase della discussione e poi la fase della decisione finale. Ho guardato qualche gioco per vedere in pratica come il gioco veniva interpretato e ho notato qualche punto che merita un po’ di attenzione. Le carte “fatti” vanno problematizzate. Bisogna stare attenti a definire cosa è un fatto. Un fatto è ad esempio un insieme di dati statistici o dei risultati di una indagine e sarebbe importante a livello educativo mettere sempre le fonti in fondo alla descrizione di un fatto. In qualche esempio costruito dagli utenti veniva riportato come fatto la posizione di una certa istituzione internazionale. Il fatto che quella particolare istituzione abbia una certa posizione è sicuramente un fatto ma la posizione di per sé non lo è. Posta questa attenzione il gioco è molto interessante. Per utilizzare PlayDecide a scuola secondo me sarebbe interessante far costruire ai ragazzi stessi il gioco raccogliendo per prima cosa i fatti, le fonti e analizzando per quale motivo i fatti sono considerati tali. Questo è un problema scolastico enorme che io vivo anche come babbo; quando il docente chiede di fare una ricerca a me viene un colpo! Che significa fare la ricerca, andare su Google e cercare? Chiedere alle persone attorno a te? Chiaramente i processi sono importanti.

Quindi secondo te sarebbe interessante un processo scolastico di Media Education per co-costruire i fatti?
Assolutamente, poi la descrizione del gioco non è estensiva e c’è la possibilità di metterci dentro le tecniche di facilitazione di cui parlavo prima. Il fatto che l’organizzazione sia quella tipica di un gioco mi sembra veramente un buon modo per riuscire a fare questa attività anche se non si parte da una grande esperienza di facilitazione.

Anche secondo me la carte fisiche e l’organizzazione materiale potrebbe aiutare rispetto ad una pura discussione soprattutto quando magari non c’è una pratica di facilitazione consolidata. Riguardo alle carte dei fatti anche per noi che ci stiamo mettendo alla prova sulla costruzione di un Play Decide che riguarda l’opportunità di costruire una grande facility astronomica in luoghi remoti del pianeta, ci siamo posti le stesse questioni, ovvero quanto i fatti potessero essere veramente fatti e quanto il frutto di una postura mentale che deriva ad esempio dal fatto che siamo astrofisici. Non a caso questo progetto nasce all’interno del percorso mensile di EduINAF questa volta dedicato all’intercultura.
Certamente è necessario capire cosa è un fatto. Un’altra cosa su cui secondo me sarebbe utile focalizzarsi è l’idea che i fatti non siano oggetti fissi e immutabili ma che sono elementi di un’indagine e servono per arrivare alla soluzione di un problema. Bisognerebbe forse introdurre la categoria della giustificazione, perché io utilizzo i fatti per formarmi una giustificazione e trovare una risposta a dei problemi. Questa giustificazione però è fallibile nel senso che possono arrivare altri fatti o posso reinterpretare i fatti alla luce di un’altra idea. L’elemento della fallibilità e del fatto che noi utilizziamo delle giustificazioni, che in quel momento sono quanto di meglio abbiamo ma che nel tempo possono cambiare, è un’altra idea interessante che si potrebbe introdurre nel gioco.

Per chiudere una curiosità che viene dalla tua esperienza sul campo. Nei percorsi filosofici come quelli che ci hai descritto com’è facilitare i bambini rispetto ad esempio a facilitare adulti (non filosofi)?
Ecco diciamo non filosofi perché i filosofi non si fanno facilitare molto facilmente. Ho avuto esperienza con gli adulti durante la Notte dei Ricercatori due anni fa perché con l’istituto di vulcanologia INGV avevo fatto una sessione sullo stoccaggio del gas. Avevamo scelto questo tema perché molti sono preoccupati per una possibile correlazione con i terremoti. Con le evidenze attuali sappiamo che l’attività antropica può causare sismicità indotta ma in casi molto particolari, e spesso senza che questa sismicità abbia un impatto grave su persone o cose. Il tema è comunque ancora molto aperto e dibattuto. In quella occasione c’erano sia a scienziati che cittadini e io agivo da moderatore. Ho visto una cosa molto preoccupante ovvero che alcuni scienziati erano molto dogmatici nel senso che loro dicevano la loro e la cosa finiva lì. Il cittadino era magari anche confuso, poteva non aveva gli strumenti per capire cos’è una probabilità, però mi sono reso conto dei grossi problemi a livello di comunicazione scientifica. Se uno scienziato pensa di esporre il fatto e dire non preoccuparti ci penso io e la discussione è chiusa certamente la cosa non funziona! Chiaramente non tutti gli scienziati erano di questa idea perché chi mi ha invitato al dibattito ad esempio aveva tutt’altro approccio. Comunque il fatto che ci fossero alcuni scienziati estremamente dogmatici ha creato dei grossi problemi alla discussione. La tendenza a zittire gli altri e magari anche involontariamente umiliarli innescava poi una reazione. O le persone non partecipavano più alla discussione oppure si arroccavano nelle loro posizioni. Questi comportamenti ovviamente creano dei disastri.

Certamente è un po’ ingenuo pensare che ancora funzioni la luna di miele ottocentesca in cui la scienza dice e la società fa.
Assolutamente si io su questo sono completamente d’accordo con Steve Fuller un sociologo della scienza che ha per altre questioni ha posizioni diversissime rispetto alle mie e che ha scritto un libro che si chiama Post Truth: Knowledge As A Power Game. Nel libro si affronta proprio questo problema. Nell’ottocento non c’era neanche il problema di mettersi a discutere con i cittadini perché la maggior parte di essi erano analfabeti o comunque non avevano nessuna possibilità politica di incidere facendo sentire la propria opinione. Ora nei paesi come l’Italia dove l’educazione è diventata un fenomeno di massa giustamente le persone vogliono discutere dei problemi e comprenderli. Non è detto che ci riescano ma se non altro sono entrate nell’arena della conoscenza nel bene e nel male. Il monopolio della conoscenza che prima era in mano unicamente alle accademie è stato messo in discussione perché siamo tutti attrezzati per argomentare, per informarci e fare un ragionamento, magari in maniera pessima, ma comunque abbiamo accesso con un’estrema facilità a tantissime informazioni. Nessuno aveva mai immaginato questo scenario. Ora quindi o si prende atto del cambiamento del contesto sociale o si fa la fine del dibattito che vi ho raccontato. L’idea che la propria opinione sia valida solo per la posizione sociale e il sostenere in maniera categorica le proprie idee unicamente affermandole fa parte di un modello che appartiene ad un’altra società. Non c’è da meravigliarsi che ci siano questi fenomeni post verità: sono dei modi in cui le persone tentano di appropriarsi del capitale culturale a cui adesso possono avere accesso quando in precedenza questo accesso era negato.

In questa situazione in cui magari ci sono alcuni (o molti) scienziati che non hanno compreso profondamente questo meccanismo e una platea di persone che sempre di più si affaccia alla necessità giustissima e sacrosanta di farsi un’opinione il ruolo dei media potrebbe essere veramente fondamentale. Noi come comunità di astrofisici forse non siamo troppo toccati dal problema perchè tutto sommato l’astrofisica non è poi un terreno così fertile per le controversie, terrapiattisti a parte. E’ sotto gli occhi di tutti il dibattito sui vaccini e come i “fatti scientifici” vengano usati all’interno di questa discussione.
Sicuramente questo ruolo è importante e richiede una preparazione adeguata. La figura del giornalista scientifico è necessaria e se non c’è questa professionalità si fanno pasticci come è accaduto e chiaramente sta accadendo adesso con la questione della pandemia perché vengono date informazioni a volte non rilevanti oppure informazioni che non fanno capire il quadro generale.
Ci sono vari meccanismi che concorrono, ci può stare il clickbait ma alle volte invece c’è una una mancanza culturale nel capire come funziona la ricerca scientifica quindi la pandemia è stato un esempio eccezionale in cui si è aperto il retroscena del funzionamento della scienza e sono venuti fuori alcuni meccanismi: i paper che sono online senza ancora referaggio, posizioni contrastanti su diverse tesi ad esempio in epidemiologia. Se uno non sa come funziona la ricerca scientifica questo crea un gran confusione in chi legge. La funzione del giornalista scientifico dovrebbe essere quella di mediare questa comprensione e spiegare ad esempio cosa significa che un paper non è stato ancora referato o che esistano due posizioni diverse e che poi magari nel tempo le due posizioni avranno storie diverse. Se non si raccontano tutte queste cose si crea solo incertezza.

Diciamo che tra qualche anno avremo modo di capire cosa è successo alla figura dello scienziato e l’idea di scienza dopo questa bufera.
Assolutamente e forse affronteremo la questione politica filosofica del ruolo degli esperti in una società cioè in che senso noi dobbiamo delegare delle decisioni agli esperti, qual’è il confine fra le decisioni che sono politiche e quelle tecniche? E anche una questione forse un po’ filosofica ovvero capire quanto nella costruzione della nostra conoscenza noi ci basiamo sulla testimonianza degli altri. Io chiedo sempre di elencare mentalmente le cose che si conoscono direttamente, informazioni di cui disponiamo apprese solo grazie alle proprie capacità e non facendo riferimento alla capacità di nessun altro.

Beh allora vincono i fisici sperimentali…
Ma in realtà anche loro studiano e si basano sul lavoro dei predecessori. Il sistema educativo non è nient’altro che una codifica della trasmissione del sapere tramite la testimonianza.

E tutto il sistema si basa sulla fiducia…
Questo è il nodo centrale la condizione imprescindibile è proprio la fiducia, se salta quella posso solo conoscere i fatti della mia vita quotidiana.

Sebastiano per me è stato veramente un piacere, abbiamo passato un’ora densissima di idee e siamo andati un po’ oltre la Philosophy for Children. Ti ringrazio veramente per questa intervista che per me è stata veramente interessante.
Anche per me è stato un piacere, alla prossima.

Note

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1 PlayDecide è un gioco di carte che stimola discussioni di gruppo semplici, rispettose e basate sui fatti

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Scritto da

Sara Ricciardi Sara Ricciardi

Ricercatrice presso l'Osservatorio di Astrofisica e di Scienza dello Spazio di Bologna. Nel campo della didattica e della divulgazione, si occupa di attività di pratiche costruzioniste ed in particolare di tinkering a scuola.

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