Cronache dalla scuola Gli Astroviandanti

I viandanti di Brera

In questo loro nuovo viaggio, Elena Barosso e Francesco Maio ci portano a visitare l'Osservatorio Astronomico di Brera.

Aggiornato il 25 Febbraio 2019

Molto spesso ci auguriamo non di conoscere, ma di parlare. Non affronteremmo un viaggio in mare per il solo piacere di vedere, senza speranza di poterlo mai raccontare.

Ci è capitato spesso di vedere l’Osservatorio di Brera nelle foto caricate sui social network. Ed è nel momento in cui vedi dal vivo qualcosa o qualcuno, che fino ad un istante prima sembrava essere soltanto un’immagine virtuale, che tutto appare surreale. Lì risultava quasi faticoso, tuttavia bellissimo, abituarsi alle nuove prospettive, a vedere persone e oggetti per davvero, in tre dimensioni, e non su due come se abitassimo a Flatlandia; e poi ancora le luci, il calore, la fatica nel salire le scale, l’eco dei nostri passi e delle nostre voci all’interno della galleria degli strumenti…
Ma facciamo un passo indietro.

L’incipit di questo nostro articolo riprende una citazione di Blaise Pascal, con la quale vorremo sottolineare l’importanza nel comunicare e diffondere sia le conoscenze acquisite che le emozioni provate nel visitare un luogo di cultura e scienza qual è l’Osservatorio di Brera.
Tuttavia siamo arrivati vicini al non potervi raccontare proprio nulla su come sia trascorsa la nostra prima visita alla sede dell’Istituto Nazionale di Astrofisica di Brera, perché nel viaggio da Pisa a Milano, dopo più o meno trecentocinquanta chilometri, siamo riusciti a perderci negli ultimi cento metri dal traguardo. Ma, senza nessuna paura, sfruttando le nostre immense e capacissime doti nell’utilizzo del telefono, noi viandanti siamo giunti alla nostra ultima frontiera: la Pinacoteca di Brera.

Innanzitutto chiediamo scusa agli studenti che in quel momento stavano seguendo le lezioni, visto che il rumore assordante delle ruote delle nostre valigie, che saltellando e urtando il pavimento di pietra, probabilmente hanno dato l’idea stesse arrivando un esercito di troll, pronto a distruggere il bagno delle ragazze nei sotterranei.
E, a proposito di Hogwarts, subito dopo si sono parate davanti ai nostri occhi delle scale. Tre piani di scale. Solo che a quelle non piaceva cambiare, per fortuna. D’altronde osservatorio è anche sinonimo di: “più in alto si va e meglio è”.
Superato per un soffio una prova di Forza tirando un dado da venti facce, e salite quindi le scale, con l’immancabile pausa nel mezzo per riprenderci, anche noi, come Dante, abbiamo trovato e seguito il nostro Virgilio in quelle ore all’osservatorio, guida che ci ha accompagnati attraverso corridoi, scale (di nuovo!), e tetti.
Come il Dottor Emmett Brown ha guidato Marty McFly a spasso nel tempo, anche la nostra guida, oltre che farci camminare per i corridoi dell’osservatorio, ci ha fatto ripercorrere le epoche salienti della storia della scienza e il progredire della tecnica degli strumenti astronomici, a partire dalla galleria principale.

Se dapprima ci si concentrava prevalentemente sul determinare la posizione e la distanza delle stelle, usando per questo scopo quadranti e orologi sempre più precisi, con lo sviluppo dell’astrofisica e della spettroscopia si è passati alla catalogazione degli spettri stellari tramite precisissimi strumenti made in Italy.
Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, però, l’osservatorio aveva subito gravi danni e perso la sua più grande cupola e la conseguente capacità di ospitare grossi strumenti. Da questo punto in poi il compito principale dell’osservatorio diventò quindi quello di monitorare le stelle in orbita e misurare con precisione l’ora locale per emettere il segnale orario utilizzato poi per sincronizzare tutti gli orologi d’Italia.
Dopo questa carrellata di strumenti e cenni storici ci aspettava la parte forse più interessante del nostro viaggio: la cupola ottocentesca di Giovanni Virginio Schiaparelli. Se dall’esterno questa appare abbastanza insignificante, dato il suo colore marrone dovuto all’ottone ossidato, e data la sua forma, beh… non proprio a cupola, l’interno tuttavia si presenta come congelato nel tempo; tutto è talmente intatto che ci si potrebbe aspettare che Giovanni entri dall’angusta porticina con nonchalance e ci chieda che cosa ci facciamo nel suo osservatorio.
La sorpresa più grande è stata quando il nostro Doc Brown, al contrario di quello che un accanito giocatore di Dark Souls poteva aspettarsi, azionando alcune levette, ha fatto muovere l’antico marchingegno; come per magia la montatura del telescopio ha preso vita, emettendo un lento sibilo che ci ha riportato alle buie e solitarie notti che Giovanni passava per riuscire ad osservare, spesso solo per un istante, il disco di Marte.
Fa quasi rabbrividire il pensiero di ritrovarsi nella stessa stanza dove, più di cento anni fa, fu tracciata la prima mappa di un altro pianeta, il luogo in cui nacque l’idea dell’esistenza della vita su Marte; un’idea che non solo ha fatto nascere il filone della fantascienza, ma ha anche modificato il modo dell’uomo di vedere il cielo.
Dopo questa visita non possiamo che trovarci ancora più spinti a conoscere più nel dettaglio le varie sedi dell’INAF sparse per tutta Italia. Non possiamo che condividere quanto pensava Albert Einstein sulla curiosità:

La cosa importante è non smettere mai di domandare. La curiosità ha il suo motivo di esistere. Non si può fare altro che restare stupiti quando si contemplano i misteri dell’eternità, della vita, della struttura meravigliosa della realtà. È sufficiente se si cerca di comprendere soltanto un poco di questo mistero tutti i giorni. Non perdere mai una sacra curiosità.

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