Stiamo tutti cercando un rapporto nuovo con il mondo, dunque anche con il cosmo. Per molti versi sentiamo che la consapevolezza si accresce, generazione dopo generazione (come pure, nella nostra evoluzione personale), e ciò che andava bene prima ora, semplicemente, non ci corrisponde più.
Ma forse è anche che questo universo in cui viviamo – grazie principalmente al flusso ininterrotto di nuovi dati astronomici e alla tecnologia che ci permette di venirne a contatto in modo immediato – si svela adesso ai nostri occhi in maniera totalmente inusitata. Per la prima volta nella storia dell’umanità , possediamo descrizioni ed immagini di oggetti fuori dal Sistema Solare, dalla Galassia. Riusciamo a leggere segnali addirittura dai primordi del cosmo. Con un click possiamo accedere, in un instante, alle immagini dettagliate di corpi celesti lontanissimi da noi come Plutone, come pure a panoramiche spettacolari della sua luna Caronte, ottenuti dopo quasi dieci anni di volo dalla sonda New Horizons.
Pare conseguente che dalla conoscenza accresciuta nasca – o possa comunque nascere – un nuovo rapporto con tutto. Un rapporto che, senza nulla togliere alla precisa sobrietà dell’indagine scientifica, dentro di noi possa anche colorarsi di una sorta di unicissimo mosaico emozionale. Una parte di emozione in effetti può aiutare la conoscenza: per come siamo fatti, ciò che non ci muove niente dentro, ciò che rimane solo nella testa, si dimentica facilmente. Invece, sentire l’universo, poterlo quasi mordere (un po’ come dicevamo per Ungaretti), e non appena comprenderlo razionalmente, ci immette in un rapporto nuovo, vivo, fresco.
In questo (ed anche molto altro) proprio i poeti sono spesso avanti, ci piaccia oppure no (a me piace, perchè non sopporto quegli scienziati che si credono possessori di un qualche accesso privilegiato alla conoscenza tout court: la quale è scientifica, certo, ma non solo). Mi sembra questo il caso per Fernando Pessoa, che quasi cento anni fa scriveva questi magnifici versi:
Ho pena delle stelle
che brillano da tanto tempo,
da tanto tempo…
Ho pena delle stelle.
Non ci sarà una stanchezza
delle cose,
di tutte le cose,
come delle gambe o di un braccio?
Una stanchezza di esistere,
di essere,
solo di essere,
l’esser triste lume o un sorriso…
Non ci sarà dunque,
per le cose che sono,
non la morte, bensì
un’altra specie di fine,
o una grande ragione:
qualcosa così,
come un perdono?
Pessoa è uno dei più importanti poeti e scrittori portoghesi e una figura rilevante tra gli artisti del XX secolo. Assai noto per la creazione degli eteronimi, ovvero personalità poetiche definite e complete (di cui l’autore inventa addirittura data di nascita e morte), facenti in realtà tutti capo alla stessa persona fisica. Pessoa si dedicò per tutta la sua vita, con tenace inventiva, a generare nuove personalità poetiche, abbandonandone alcune e sviluppandone altre, nel tempo, definendone minuziosamente i percorsi biografici e bibliografici.
Proprio in questa poliedricità rintraccio un senso di insofferenza per i percorsi troppo usati, sperimento un desiderio di nuovo. Dopotutto, non appare come una interessante anticipazione di quanto – su scala più spicciola – facciamo tutti noi con i vari profili dei social su internet?
Venendo alla poesia riportata, trovo molto interessante il fatto che Pessoa si affacci sull’universo – la contemplazione delle stelle – per ritornare subito a qualcosa di molto umano, a quella stanchezza di esistere che in qualche modo chiede un riscatto, domanda un superamento, o un addensamento di significato. Perchè questa stanchezza? A che scopo? Questo si chiede il poeta.
Nel gioco di attribuzione convinta (e inusuale) di caratteristiche prettamente umane agli oggetti del cosmo, Pessoa supera di slancio il nostro tradizionale modo di pensare “a compartimenti stagni” (una cosa sono le stelle, una cosa il mio entusiasmo, una cosa sono le galassie, altro il mio mal di stomaco), ovvero quel pensare dividendo, nel tentativo lodevole ma un poco maldestro di isolare un ambito, definire un problema: tentazione molto comune anche se ormai sconfessata nella sua utilità , dal pensiero filosofico e psicologico, dove invece è proprio tenendo tutto insieme che si può avviare una ipotesi di comprensione (o di soluzione). Io e l’universo, insomma, polarità inscindibili di un rapporto che è ormai obbligatorio mantenere saldo, pena lo scadimento in visioni parziali del rapporto con la realtà . La perdita del cosmo ci porta infatti direttamente dentro la miriade di giochi di piccolo cabotaggio, che già conosciamo bene e che certo non rendono ragione della infinita complessità che noi stessi siamo.
La strofa finale mi appare come un lanciarsi oltre l’ostacolo, come un arrivare alle stelle per ritornare a terra con una domanda potentissima, che alberga comunque nella nostra mente di donne e uomini del XXI secolo come ha fatto per millenni. Ci sarà qualcosa – si badi, non tanto oltre – ma invece della morte? Così una grande ragione è qualcosa che soddisfa appieno la nostra mente, così un perdono (non è necessario qui riferirsi immediatamente all’ambito religioso, piuttosto conviene lasciare la mente spaziare in modo ampio, stellare) evoca invece qualcosa di emozionale, in fondo, la possibilità di un ritorno in un alveo intatto e incontaminato.
La pena per le stelle – per la loro fatica inesausta di brillare da tanto tempo – si può allora leggere come l’inizio potente di una ricomprensione emotiva del cosmo, proprio quella ricomprensione che si auspicava in apertura. Non c’è un cosmo freddo ed indifferente davanti allo sguardo del poeta, c’è piuttosto un universo con il quale patire insieme, fino a nutrire un umanissimo sentimento di pena per la sorte delle stelle: tale da sperare in una fine diversa da quella apparente, una fine che sia un raccogliersi grati dentro un perdono, ovvero – potremmo forse dire in termini laici – un superare le mille incongruità dell’esistere per approdare ad un porto sicuro, tranquillo, incontaminato. L’unico luogo nell’universo, ancora e sempre abitabile.
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