Quando Albert Einstein formulò la sua teoria della gravitazione, universalmente nota come teoria della Relatività Generale, provò ad applicarla all’universo intero. Si accorse subito che i suoi calcoli prevedevano un universo destinato a collassare su se stesso. Per questo motivo, nel 1917 introdusse la famigerata costante cosmologica: un termine appunto costante, una sorta di energia che permea ogni punto dello spazio, in grado di generare una pressione negativa capace di contrastare la gravità e garantire un universo in equilibrio statico. A quel tempo, infatti, era convinzione comune che l’universo nel suo complesso fosse statico. La costante cosmologica sembrava rimettere le cose a posto.
Immaginate la sorpresa di Einstein quando, nel 1922, lesse l’articolo pubblicato da un oscuro giovane matematico russo che sosteneva che la costante cosmologica non garantiva affatto un universo in equilibrio. La soluzione trovata da Einstein era soltanto un equilibrio instabile: sarebbe bastato uno “starnuto” per far crollare l’intero universo su se stesso. In realtà, Aleksandr Friedmann – questo il suo nome – aveva dimostrato che le equazioni di campo di Einstein, qualunque fosse il valore della costante cosmologica, non potevano mai descrivere un universo statico, ma solo in espansione o in contrazione.
Il risultato, pubblicato nel 1922, all’inizio non ebbe grande risonanza. Einstein per un po’ sostenne che i calcoli fossero sbagliati, e del resto nessuno allora credeva a un universo in espansione o in contrazione. Tuttavia, nel 1929, la scoperta di Edwin Hubble rese giustizia al giovane scienziato russo: dalle osservazioni delle galassie lontane risultava evidente che l’universo si stava espandendo.
Friedmann però non fece in tempo a godere del suo successo: era morto qualche anno prima, il 16 settembre del 1925.
Che fa l’universo?
Dilemma cosmico
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