Aggiornato il 28 Novembre 2024
Il 4 ottobre 2002, su Science, la celebre rivista USA fondata nel 1890, esce un articolo di appena una colonna, firmato da scienziati britannici. Ha un titolo, From PUS to PEST che, a prima vista dice poco. A un secondo sguardo fa storcere il naso. Sembra dire dal pus alla peste. Ma di che si tratta?PUS e PEST sono due dei tanti acronomi che le comunità di ricerca utilizzano, rendendosi comprensibili solo agli adepti. Il primo sta per Public Understanding of Science e, a quell’epoca, era già in giro da tanti anni. La sua istituzionalizzazione, almeno in Europa, risale al 1985, con la pubblicazione del “rapporto Bodmer” della Royal Society del Regno Unito.
Il secondo sta invece per Public Engagement in Science and Technology ed ha sia il merito che il demerito di aver introdotto il termine “engagement” nell’arena del dibattito sulla comunicazione della scienza.
Questo articolo, infatti, pure nella sua brevità , è all’origine di un dibattito che ancora oggi non è terminato e che ha segnato la fine della divulgazione classica comunemente intesa. Quella, per capirsi, nella quale io scienziato, esperto di un certo settore, vi racconto, vi spiego, vi “educo”, cioè vi rendo edotti su un campo per il quale magari provate interesse, ma di cui non sapete niente. Ecco, il PUS si poggiava su questo semplice formato: l’esperto spiega ai non esperti. Un esempio di questi anni: il professor Burioni in televisione. Voglio sottolineare che non lo scrivo in senso negativo.
Tecnicamente il PUS si basa sul cosiddetto “deficit model": si assume cioè che esista un vuoto di conoscenze in coloro che ricevono lo “spiegone”. Pensate di dover riempire una botte vuota con una botte piena. Quest’ultima sta sopra la prima. È un tipico modello top-down, appunto, dove chi spiega sta sopra e chi ascolta sta sotto. In questo genere di modello, il pubblico è appunto un contenitore “vuoto”, da riempire.
L’obiettivo del PUS è l’alfabetizzazione scientifica dei cittadini. L’ipotesi fondamentale è che più la scienza viene compresa, più "“ necessariamente "“ sarà apprezzata. E se i cittadini apprezzano di più la scienza, allora ne avranno una maggiore fiducia e dunque la sosterranno. E questo, a sua volta, aiuterà certamente lo sviluppo del paese.
È un approccio che ha tanti pregi: per esempio, la chiarezza dei ruoli, la nettezza delle informazioni, ma anche la volontà di spendersi da parte degli scienziati. Ma allora perchè nel 2002 appare necessario superarlo?
C’è qualcosa di male in questo modello? Dopo tutto ha portato a grandissimi risultati: pensate a Piero Angela che con l’aiuto di esperti tecnici “spiega" il funzionamento del corpo umano, per esempio. E in parte è vero: per molti anni, il PUS ha portato a successi. Ma la questione è più delicata di quel che sembra.
Il PUS ha anche alcuni aspetti che, piano piano sono apparsi sempre meno tollerabili: è una modalità paternalistica, sicuramente presuntuosa, che non riconosce valore al punto di vista, quale che sia, del pubblico.
Per esempio, per tornare ai nostri tempi, un’affermazione tipica del PUS è la scienza non è democratica: si tratta di uno slogan che ne riassume l’atteggiamento, con un corollario ancora più paternalistico: la scienza non è democratica, ma se ci ascoltate attentamente noi scienziati vi aiutiamo a comprenderla.
Tutto questo sarebbe stato un dibattito accademico, se nel 1996 sul Regno Unito non si fosse abbattuta una proteina patogena, un “agente infettivo non convenzionale, divenuta poi celebre come “morbo della mucca pazza”. Lo possiamo prendere come punto di non ritorno del PUS, il momento in cui i difetti, già noti e discussi pubblicamente, divengono insostenibili.
Per molti versi, il PUS inizia a essere visto nelle sue vesti peggiori, ovvero come forma di propaganda "“ gestita direttamente da coloro che ne ricavano i vantaggi maggiori, cioè gli scienziati. In termini forse brutali ma non distanti dalla realtà , “te la racconto come mi fa comodo”.
Il PEST nasce da questo genere di osservazioni ed è il tentativo di “riconcettualizzare” il rapporto fra scienza e pubblico, fra esperti e non esperti. Si tratta di aprire al dialogo, di. Considerare non solo gli interessi del pubblico, ma anche di saperlo ascoltare, di considerarne le opinioni "“ scientifiche o non. Si tratta di rendersi conto che quando si comunica, chi ascolta non ha ruolo passivo nella costruzione del significato, ma concorre alla sua definizione insieme al comunicatore. C’è dunque bisogno di un confronto, che chiarisca i punti di vista e permetta loro di evolversi, di modificarsi.
Ma ha veramente un senso? Forse la scienza di frontiera, quella cioè con evidenze ancora precarie o teorie non completamente definite, si può discutere. Ma il teorema di Pitagora è discutibile? Il PEST è un approccio universale?
Ci sono varie risposte possibili. Quella che preferisco è che lo strumento universale per la comunicazione è l’ascolto. Anzi: sono l’ascolto e la capacità di comprendere punti di vista diversi. Discutere il teorema di Pitagora può significare rendersi conto che i teoremi hanno una struttura narrativa o che ha una validità limitata a certe ipotesi geometriche. Oppure può essere solo uno splendido gioco.
Il prossimo Oltre l’orizzonte sarà dedicato a vedere in che modo si è sviluppato il PEST e perchè oggi si parli genericamente di Public Engagement "“ senza peraltro avere ancora chiaro che cosa sia.
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