Aggiornato il 22 Giugno 2022
Margherita Hack che parla a un vasto pubblico in una piazza piena di bandiere della pace; Margherita Hack che parla a una platea di studenti; Margherita Hack che viene intervistata in televisione; Margherita Hack che sorride, ricevendo dei fiori; o che va in bicicletta o che salta in alto o che parla dei suoi amati gatti o della (non) esistenza di Dio o, al contrario, dell’esistenza di altre forme di vita nell’universo.
Nell’immaginario comune, la Hack è facilmente identificabile come una battitrice libera. È un’icona chiara, ben delineata, che si staglia su uno sfondo indistinto. Certo, Margherita si presta bene a questa operazione: ha una personalità forte, fortissima. Ha una caratterizzazione linguistica molto evidente con quel suo accento fiorentino (non solo genericamente toscano: fiorentino), con le sue idee, le sue ironie. Inoltre è una donna di successo in un ambiente generalmente dominato da uomini e fisicamente non è comune: atletica da giovane, curva e indomita negli ultimi anni. Inoltre è “contro” – contro le regole tradizionali, spesso da svecchiare o da erodere – contro i luoghi comuni, contro il pensiero “debole”. Sempre disposta al dialogo, ma con idee e posizioni di solito chiare, esposte con nettezza.
Per dirla in altri termini: Margherita è un personaggio, una maschera riconoscibile da chiunque in qualsiasi circostanza. Una maschera che i media comunicano facilmente e con successo.
Ma quella non è Margherita Hack: è la narrazione di Margherita Hack, con i suoi meccanismi di semplificazione e dualismo che hanno sempre fame di “eroi”, di “singoli” che combattono “contro” – contro che cosa non importa moltissimo, purché sia contro.
In realtà basta appena scalfire la superficie di tutto quel che la Hack ha scritto e fatto, per capire quanto il senso di “squadra” e di “comunità” siano stati i veri principi-guida della sua attività, mai venendo meno a se stessa. E in tutto quel che segue tralascio gli aspetti più personali, ovvero quella meravigliosa storia d’amore con Aldo de Rosa, una vita simbiotica, meravigliosa anche se non la si condividesse.
Quando Margherita Hack arriva a Trieste, nel dicembre del 1964, dopo un certo tira e molla, trova un osservatorio che definisce “l’ultimo in Italia”: poco personale astronomico (ma che si rivelerà di ottimo livello), sito inadatto per l’osservazione astronomica. L’unico telescopio a disposizione era il mitico Reinfelder da 25 centimetri, un ottimo rifrattore, ma pur sempre da 25 centimetri, quando ormai a livello mondiale esistevano telescopi da 5 metri di diametro. Insomma, la situazione era difficile.
Nel giro di pochi anni, però, sarà in grado di bandire concorsi per chiamare a Trieste qualche giovane astronomo e qualche giovane astronoma; di stringere ottimi rapporti con i fisici che ruotano intorno al Centro Internazionale di Fisica Teorica (ICTP), come per esempio Paolo Budinich; di cercare e trovare una nuova sede osservativa, che troverà a poche centinaia di metri dal confine con la Slovenia, a Basovizza. E, infine, di aprire l’Osservatorio di Trieste a una dimensione internazionale, in una costante fuga dall’asfissia della situazione italiana ma anche nello sforzo di non chiudersi in se stessa.
Alla base di questo indiscutibile successo, c’è un atteggiamento fondamentale: dare fiducia e liberare le energie, sue e del prossimo. Margherita cerca di mettere ciascuno in condizione di dare il meglio che può.
Così Bruno Cester inizia a progettare un nuovo telescopio ottico di un metro di diametro; così Alberto Abrami si specializza in radioastronomia, che in quegli anni sta avendo un forte sviluppo e in fisica solare. Così lei stessa e alcuni giovani, possono proseguire con la spettroscopia stellare.
In altri termini, fa scuola senza dire che sta facendo scuola. Gestisce mettendo a disposizione risorse, mentalità.
Margherita “maestra”, ma anche soprattutto ottima allieva. Che ascolta, vede, critica, cresce e fa crescere. A Trieste, ripropone infatti il metodo visto all’opera ad Arcetri. Giorgio Abetti, direttore dell’Osservatorio di Firenze all’epoca della sua tesi di laurea, era uno degli astrofisici più noti a livello internazionale: a differenza dei suoi colleghi, ha una formazione da fisico e non da astronomo classico. La giovane Margherita ci si riconosce appieno. Gli elementi del metodo Abetti sono la creazione di una squadra di ottimi ricercatori, motivazioni individuali, senso di gruppo, internazionalizzazione. Sono gli elementi fondamentali della ricerca scientifica di alto livello.
E la vita scientifica della Hack sarà sempre costellata di rapporti e contatti internazionali con gruppi di ricerca. Lavora con Daniel Chalonge a Parigi sulla classificazione stellare quantitativa; con Marcel Minnaert a Utrecht, dal quale apprende la teoria dei modelli di atmosfera stellare; con Otto Struve prima a Berkely poi a Pasadena, con cui si specializza sugli spettri stellari anomali. E in Italia, quando è a Merate, stringe rapporti con il gruppo di Beppo Occhialini, grazie al quale si interessa di astronomia delle alte energia e con quello di Giampietro Puppi e il giovane Marcello Ceccarelli, a Bologna, che segna la nascita della radioastronomia italiana. Insomma, Margherita era lì, in prima linea. Insieme agli altri.
Allo stesso modo, è attraverso una comunità di persone, di colleghi, che la Hack cerca di modificare il modo con il quale gli osservatori astronomici venivano gestiti: dando vita a un coordinamento autoconvocato, il CAPA, che potesse poi essere il ponte fra ricerca e istituzioni ministeriali. Nel corso degli anni ha aderito a movimenti, partiti, associazioni, circoli: politici o culturali, tutti partecipati da cittadini. Non ha combattuto battaglie da sola. Nonostante la narrazione che la volesse superstar.
E persino nel gesto di divulgare, nonostante l’enorme numero di attività individuali, ha sentito il senso della comunità: è stata tra i fondatori del CICAP e de L’astronomia, che ha raggiunto una diffusione incredibile in Italia per essere una pubblicazione di settore. Tante colleghe, tanti colleghi ricordano con piacere la lettura di quella rivista, anche grazie al lavoro straordinario di Corrado Lamberti, che ha iniziato con Margherita ma che poi ha mantenuto il timone editoriale per anni con una qualità eccezionale. In questo ricordo, ringraziamo anche Corrado.
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