Io lo vedo, il colonnello, di fronte a me: vedo una persona matura, con i baffi, vestita con colori giallo-marroni e i pantaloni più scuri, indefiniti. Si trova con le spalle rivolte a un muro, su cui la sua figura proietta un’ombra lunga – come quella di un tardo pomeriggio. Ha un cappello polveroso, ampio. Non sorride ma non è serio: tranquillo direi. Il muro è poco più alto di lui, costruito da mattoni imperfetti, scheggiati, bucati. Sento la presenza del plotone di esecuzione, ma non lo vedo – è fuori scena.
E subito dopo, dal muro si stacca l’immagine di un bambino in bianco e nero, in pantaloncini corti, e di suo padre, che attraversano il colonnello di oggi come fosse un fantasma. Di fronte a loro – sempre in bianco e nero – un grande blocco di ghiaccio e il carretto che lo trasporta, fermo. Vedo il bambino che gli corre vicino, lo sfiora; si volta e guarda il padre e ride, di meraviglia, di sorpresa.
Questo fanno le parole: quando cerchi di comunicare un’idea, una scena, qualsiasi cosa, sei il regista di un film che viene proiettato dietro gli occhi di chi ti sta ascoltando: direttamente nel cervello. Ogni parola evoca un’immagine. La tua idea, trasformata in suoni, viene raccolta e trasformata di nuovo in immagine.
Ma sei un regista molto imperfetto. E non è affatto una critica: è indipendente dalla tua capacità di trovare le parole. Lo avete appena letto nelle righe sopra: quel che viene proiettato dentro la testa di una persona che ascolta, dipende da quella persona. Il mio cervello ha deciso i colori del vestito del colonnello, gli ha fatto crescere i baffi, messo il cappello. Niente nell’incipit di Cent’anni di solitudine indica ci siano un muro o un carretto. Il passaggio dal colore al bianco e nero è stato architettato a mia insaputa. Non so da quali archivi di esperienze il mio cervello abbia pescato per dipingere una scena di questo genere. Perché poi non vi ho detto della sensazione prevalente: una sensazione di una malinconia profonda, di quella malinconia con un sapore bellissimo, felice. Che ti fa capire quanto è stata bella la tua vita passata e che te ne stai accorgendo proprio ora – di fronte al plotone di esecuzione. E forse, ti mormora quel sentimento, la vita è proprio uno stare di fronte a un plotone di esecuzione, giorno dopo giorno, ora dopo ora. Ma vale la pena – e quel bambino e suo padre e il ghiaccio di cui gli regala l’esperienza sono tutto l’amore del mondo.
Il problema di base della comunicazione è proprio questo: condividere un’idea con qualcuno non equivale a trasferire quell’idea né a recapitarla identica a come è partita. Ciascuno la riveste a modo suo e più un concetto è complesso, più complessa è la ricostruzione. Allo stesso modo, più il ricevente – chiamiamolo pubblico – è lontano per cultura, formazione, ambiente sociale, età, dall’emittente – chiamiamolo comunicatore – e meno l’idea ricostruita assomiglierà all’idea di partenza.
Questo ci porta a due osservazioni semplici, di cui a volte non si capisce la profondità e a cui si dedica troppo poco tempo, perché purtroppo vengono intese come “luoghi comuni” da chi si appresta a “comunicare”.
La prima: se vuoi comunicare, devi conoscere il tuo pubblico.
Conoscere il pubblico significa tener presente la sua formazione, la società in cui è immerso, i riferimenti culturali. Non è solo un fatto di età, ma anche di ambiente quotidiano: gli studenti di una scuola di provincia hanno certamente gli stessi riferimenti social degli studenti di una scuola cittadina, ma la loro vita quotidiana è diversa. Di sicuro guardano le stesse serie su piattaforma, ma gli stimoli che ricevono giorno dopo giorno quando sono fuori casa sono diversi. Così come è diverso andare a scuola passando attraverso una strada di campagna, viaggiando in metropolitana oppure scendendo sotto casa.
Conoscere il pubblico permette di intuire il modo con cui l’idea che volete comunicare potrebbe essere ricostruita. Capiamoci: è un procedimento incredibilmente approssimativo. Non solo perché non esiste un “pubblico”, ma un insieme di persone, ognuna con un suo vissuto e un suo linguaggio. Però è uno sforzo indispensabile.
Seconda osservazione: se vuoi comunicare, devi saper ascoltare il tuo pubblico.
Lo sottolinea in maniera acuta e splendidamente chiara, quasi un secolo fa, Filippo Ravizza, direttore dell’Istituto Internazionale del Risparmio. Ravizza aveva la necessità di promuovere la cultura del risparmio presso il grande pubblico, con rapidità ed efficienza. Si riferisce alle sue azioni comunicative definendole propaganda. Scrive:
Queste due osservazioni, se prese con un minimo di profondità, dovrebbero convincere chiunque voglia comunicare a mettere a fuoco un atteggiamento molto chiaro: spostare l’attenzione da se stesso (o se stessa), ovvero dal soggetto comunicante, agli altri.
La comunicazione stessa viene trasformata in un dialogo, a patto di interrogare, di ascoltare sul serio, di essere pronti a una reciprocità di atteggiamento: non io parlo, ma io ascolto – e meglio ancora: “io dialogo”, passando dall’io al noi.
Se questo atteggiamento viene assunto, assimilato e fatto proprio, allora potremo parlare – nelle prossime puntate – di tecniche di comunicazione. Altrimenti, meglio lasciar perdere.
PS Qualche giorno prima di pubblicare questo articolo, ho lanciato su facebook la sfida per descrivere il colonnello Aureliano Buendìa, basandosi solo sull’incipit. Ecco il ritratto che ne risulta, contraddittorio e divertente, che mostra in modo molto chiaro quanto ciascuno proietti nella propria mente un film diverso sia pure a partire dalle medesime parole.
Identikit di Aureliano Buendì, di fronte al plotone di esecuzione, mentre ricorda sua padre che lo portava a scoprire il ghiaccio, molti anni prima.
Il colonnello ha un’età tra i 40 e i 70 anni, più probabilmente fra 50 e i 60.
Ha i baffi lunghi, neri, brizzolati. Ma potrebbe non averne.
Non ha la barba, ma per alcuni sì: corta o forse di un paio di giorni. Ma potrebbe essere anche perfettamente sbarbato.
I capelli sono brizzolati, tendenti al bianco. Lunghi. D’altronde è completamente calvo.
Occhi chiari. O scuri, marroni. In ogni caso, inondati di pensieri che guardano lontano e forse nel passato. Lo sguardo è dolce.
È alto. Alto e magro. Piazzato. Assomiglia a Garibaldi o al sergente Garcìa di Zorro – ma meno grasso. Ha una struttura minuta.
La complessione è caucasica. È un indio. Il viso affilato e le guance smagrite. È distinto.
Ha il cappello militare, blu e rosso o nero.
La divisa è verde o blu con strisce rosse. Indossa una giubba o una giacca rosse, abiti verdi e celesti chiari, con molte tasche, verde muschio, beige scuro, kaki. La camicia è bianca, sporca aperta.
Abiti sgualciti, scuri, chiari, grigi – lievemente stazzonati.
I pantaloni sono neri.
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