Lo spazio tra le pagine Arte e letteratura

Uno spazio da mordere

Un piccolo viaggio tra i versi di Giuseppe Ungaretti

Il punto è che anche noi scienziati, ormai, rischiamo di meravigliarci poco. Quando poi la scienza contemporanea, l’astronomia in particolare (secondo me), di motivi per meravigliarci ce ne fornirebbe a iosa. Sicuramente molti più di un tempo. Basterebbe pensare alle immagini del Telescopio Hubble appena ieri, del James Webb oggi.
Ma oltre le immagini, sempre bellissime, c’è altro nello studio dei cieli. E non mi riferisco solo all’aspetto più tecnico o matematico, adatto agli addetti ai lavori. Anche una teoria, un modello ci può parlare: anch’essa è pane per alimentare un sincero stupore, se appena ci manteniamo abbastanza aperti.

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Giuseppe Ungaretti, visto da Davide Calandrini @davidecalandrini – vedi la versione originale

Perché i modelli servono a tutti (scienziati e non). Abbiamo sempre avuto un modello di universo con il quale confrontarci, fin dai primordi dell’umanità. Semplicemente, non si può vivere senza un’idea, uno schema, di quello che abbiamo intorno. Mitico o scientifico, in questo senso non ha grande importanza. In piedi sul dorso di una tartaruga gigante (la quale a sua volta, certo, si deve appoggiare su qualcosa), o immerso in un tessuto quadridimensionale in espansione accelerata, comunque un’idea te la devi pur fare, di dove sei. Di come è fatto, questo mondo nel quale ti trovi ad esistere.
Per come la vedo io, l’idea di un cosmo di stelle fisse come andava fino ad alcuni decenni fa (e che aveva irretito perfino Albert Einstein), non è poi così dirompente, alla fine. Ti ci abitui facilmente. Tant’è che la nostra mente inconscia è più o meno rimasta lì. Quando ammiriamo le stelle, non ci rendiamo conto quasi mai di essere in un cosmo in espansione (e per giunta, accelerata).
L’informazione più straordinaria di tutte, comunque, è forse quella che ci proviene dalla cosmologia moderna. Secondo tale quadro – condiviso dalla gran parte dei ricercatori – viviamo dentro un Universo che comprende in sé non soltanto la materia di cui son fatte le stelle, i pianeti, noi stessi (e anche il gatto di casa, nonché il cane dei vicini, quello che abbaia alle ore più improbabili), ma una buona parte di materia oscura ed energia oscura. Cosa siano, per farla breve ancora non si sa. Si sta cercando, certamente: il campo è affasciante e c’è un ribollire di ipotesi, un salutare fermento. Gli scienziati sono al lavoro, insomma.
Ma non è tanto questo a stupire: dopotutto, di cose che non si sanno ce ne sono tante. Quello che lascia a bocca aperta è la semplice percentuale: pare che materia oscura ed energia oscura la facciano – per così dire – da padrone, lasciando all’universo “normale” (quello del quale facciamo esperienza) appena un quattro per cento del totale. Così, preso di petto, questo dato ci dice che il 96% dell’Universo è al momento, totalmente sconosciuto. Notevole, eh? La scienza moderna ci avverte, in un certo senso, che non sappiamo ancora nulla. Finalmente ora sappiamo di non sapere (se vi viene in mente un certo Socrate, tenete pur conto che la cosa è intenzionale).
Ed è qui che a mio avviso ci viene in aiuto la poesia, come viatico importante per continuare la strada. Come potrebbe essere diversamente? Pensiamoci, un universo così ampiamente misterioso è intrinsecamente un universo poetico. E’ cioè un universo al quale possiamo approcciarci in maniera forse più soddisfacente, a livello umano, se non ci limitiamo ai parametri conoscitivi della scienza ma – sulla scorta di quelli – ci apriamo poi ad un ambito più vasto: operazione, peraltro, che la rubrica che state leggendo adesso vorrebbe sinceramente favorire.
La scienza è bella per questo: perché è una costruzione rigorosa che, comunque, lascia sempre campo aperto all’immaginazione. E in questo campo aperto può incontrare la poesia (a volte, capita). La poesia è infatti, potremmo dire, il lavoro di dare un senso ultimo e corroborante all’insieme delle cose, di ricercarlo in modalità intuitiva, non razionalistica. Non compete con la scienza (il suo compito è differente), ma ne è amica. L’indagine scientifica è fondamentale, anche perché non pretende mai di essere l’unica forma di conoscenza. Del resto, i poeti – laureati o meno in scienze astronomiche – si sono sempre occupati di universo. Poesia e scienza alla fine si cercano: in fondo è un rapporto di desiderio, di mutuo desiderio. Una ricerca di completezza. E non a caso, molti scienziati sono, e sono stati anche poeti (o viceversa, ovvio).
Ascoltiamo cosa dice Giuseppe Ungaretti, in una della sue Poesie Sparse:

I Giorni e le Notti suonano
in questi miei nervi d’arpa
Vivo
di questa gioia malata
d’universo
e soffro
per non saperla accendere
nelle mie parole

La gioia del poeta è malata di universo perché anela alla totalità, non si accontenta di niente di meno del tutto. L’universo, cioè. L’espressione poetica si introduce nel campo della scienza, e non certo usurpando o calpestando il suo lavoro. Piuttosto, lungi dal sentirsi diminuita dalle conquiste della scienza (come lo stesso Ungaretti ci testimonia autorevolmente), essa giunge a saldarsi discretamente alla costruzione scientifica, per restituire un sapere più globale all’uomo.
Occorre avere le idee chiare, rifuggire da ogni ambiguità: men che mai si può trattare di andare contro la scienza quanto, piuttosto, di ritornare ad un’idea di uomo più completa, che integri (in modo non conflittuale) il sapere scientifico all’interno del vasto quadro della conoscenza umana. E questo spazio in cui ci troviamo non è appena da abitare, ma da vivere pienamente, quasi da mordere.
Sempre Ungaretti, in La notta bella:

Quale canto s’è levato stanotte
che intesse
di cristallina eco del cuore
le stelle
Quale festa sorgiva
di cuore a nozze
Sono stato
uno stagno di buio
Ora mordo
come un bambino la mammella
lo spazio
Ora sono ubriaco
d’universo

Ecco allora come possiamo leggere gli stati di sofferenza o di ubriachezza cosmica di Ungaretti, così mirabilmente espressi in questi componimenti: essi ci mostrano lo struggimento verso uno spazio di conoscenza e di esistenza, di un uomo che desidera tornare completo. Il desiderio, vissuto e sofferto nella carne, di evolversi in una persona nuova. Una persona che integra dentro di sé i diversi saperi: ben sapendo che, in ultima analisi, diversi non lo sono affatto.

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Scritto da

Marco Castellani Marco Castellani

Ricercatore presso l'Osservatorio Astronomico di Roma. Si interessa di popolazioni stellari ed è nel team scientifico del satellite GAIA di ESA. Divulgatore e scrittore per passione, gestisce da anni il blog divulgativo Sturdust.blog (già GruppoLocale.it) e coordina il progetto Altrascienza.it.

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