Non c’è davvero bisogno di spendere molte parole su un romanzo epocale come Cento anni di solitudine del premio Nobel Gabriel Garcia Marquez, considerato a buon diritto come una delle opere più rilevanti in tutto il Novecento letterario (nell’estratto di apertura, nella traduzione di Enrico Cicogna). La vicenda delle varie generazioni della famiglia Buendìa, il cui capostipite, Josè Arcadio, fonda la città di Macondo verso la fine del secolo XIX, è narrata con un particolarissimo mix di elementi reali e fantastici, tali da fare di quest’opera l’irraggiungibile capostipite di quel filone letterario che verrà chiamato, come sappiamo, realismo magico.
La miscela tra realtà e fantasia è amalgamata così sapientemente che alla fine il lettore – per riuscire semplicemente a proseguire nella narrazione – è forzato a compiere una salutare operazione di rinuncia, a mettere da parte quello che la sua mente gli propone rispetto a ciò che può essere e ciò che non può, e affidarsi interamente alla penna sicura di Marquez. Si riesce così a portare ai massimi termini quel processo di affidamento che è comunque necessario per la reale fruizione dell’opera artistica: semplicemente, in forza della coerenza letteraria e della compattezza di visione, ci si abbandona. Ci si arrende cioè a una logica diversa che ci forza ad allentare le briglie del nostro abituale modo di pensare. Credo che l’artista sia chi dimostra avere la capacità e la tenuta necessaria per portare le persone dentro un altro mondo, farlo sperimentare e non appena descriverlo.
Ho iniziato a leggere il romanzo varie volte, ma non mi è stato possibile entrarvi davvero – non avrei potuto proseguire molto – fino a che non mi sono intimamente risolto verso questa procedura di abbandono. Solo allora il testo ha iniziato a parlarmi, a dialogare con la mia immaginazione, ad introdurmi al suo universo.
Il mondo di Marquez è realmente un altro mondo, governato da una logica propria. A Macondo la gente è convinta che la Terra sia piatta. L’intuizione di Josè Arcadio di una Terra rotonda come un’arancia spiazza le persone, le porta fuori dalla loro zona di confort. Tanto che la moglie si inalbera, di fronte a quella che considera una pazzia. Nel mondo di Marquez (del quale si è già occupato da un diverso punto di vista Stefano Sandrelli) entra comunque il metodo scientifico, anzi forse proprio qui, in questo mondo eccentrico e lunatico, si può imparare di nuovo ciò che tale metodo è, nella sua profonda semplicità .
Josè Arcadio sostiene una cosa che va contro il parere di tutti, che irrompe nell’ambiente come qualcosa di strano, di nuovo. In un mondo dove le più incredibili stranezze sono sperimentate come normalità , la nozione di una Terra rotonda spiazza, rende perplessi, crea resistenze e ostilità . Ed ecco il punto. Josè Arcadio non si impegna a discutere la sua tesi, non oppone elaborazioni dialettiche. Nè si scoraggia per il fatto che tutto il paese è di diversa opinione. Affatto. Lui costruisce un astrolabio. La moglie glielo distrugge? Lui, pazientemente, ne costruisce un altro.
Capiamo meglio cosa fa Josè. Potremmo anche voler fare come lui e costruircene uno noi, tra l’altro (che poi non è neanche detto che il nostro partner – probabilmente già esposto all’idea di una Terra rotonda – ce lo debba per forza distruggere). Non è troppo difficile. Prendere dimestichezza con un astrolabio ci aiuta a capire che stelle possiamo vedere nel nostro cielo, in un certo periodo dell’anno. Ma capire cosa fa Josè va anche oltre questo. Perchè Josè compie una scelta precisa. La scelta di dare più credito all’esperienza rispetto a quello che si dice, ricercando, ovvero interrogando la natura. Ed insistendo di fronte agli eventi avversi, in questo caso il comportamento della moglie, sconcertata dalla sua teoria. Martin Heidegger diceva, al proposito, che la grandezza dell’uomo si misura in base a quel che cerca e all’insistenza con cui egli resta alla ricerca.
Josè non si arresta nemmeno davanti al fatto che le sue teorie, come annota Marquez con felicissima ironia, risultano incomprensibili a tutti. Sarà poi Melquìades a mettere le cose a posto, facendo giustizia all’idea di Josè. Nel romanzo, Melquìades è una figura carismatica e assai misteriosa di scienziato e mago insieme, e anche questo è significativo. La scienza come sappiamo emerge e si definisce progressivamente decantandosi dal pensiero magico, proprio per l’acquisizione e la ricezione di un metodo, quel metodo che Josè fa proprio e difende contro l’ostilità manifestata dall’ambiente in cui vive, l’opposizione di tutto il paese.
La soluzione di Josè insomma è costruire qualcosa, che è in fondo un atto di umiltà . E’ come dire, andiamo a vedere come stanno le cose, invece di difendere astrattamente una propria ragione. L’arte di Marquez dunque recepisce limpidamente il metodo scientifico e lo innesta in un mondo comunque magico, contribuendo così a renderlo davvero tale.
Perchè in un certo senso l’universo è realmente magico, ovvero è mirabolante sopra ogni immaginazione (come le immagini del Telescopio James Webb ci stanno mostrando in questi mesi, a partire dalle primissime foto di luglio) e la vera e perpetua magia consiste nell’allargare le maglie del nostro pensare quotidiano, del nostro pensare in bianco e nero, per dipingerci almeno un po’, almeno un minimo, dei veri colori del Cosmo.
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