Di Massimo Morasso ne ho brevemente parlato, ottobre scorso, nel contributo intitolato “Quegli universi, ancora da gustare“. In quella sede, facevo riferimento ai quattro finalisti dell’ultima edizione del Premio Nazionale Frascati Poesia Antonio Seccareccia, considerando nell’insieme la loro recente produzione. Vale però la pena, mi sono detto, di incontrarli di nuovo, uno alla volta. Il premio è una istantanea significativa di quanto si muove nel panorama poetico italiano (intimorisce, al proposito, la presenza di molti grandi nomi nel suo albo d’oro) ed è ragionevole attraversare i testi dei finalisti con maggior calma, rispetto a quanto può farsi in una analisi complessiva.
Che peraltro, siamo pienamente in tema. Massimo (ligure, classe 1964) è difatti, affermato poeta e collaudato uomo del cosmo, insieme. Fa parte del consiglio scientifico dell’importante Festival dello Spazio che si tiene annualmente a Busalla, in provincia di Genova. Ritorno dunque volentieri a consultare i suoi versi, dolcemente esortato da questo comune interesse in ciò che esiste oltre la terra.

Il suo Frammenti di nobili cose, con il quale è arrivato in finale del Premio, è un volumetto decisamente agile. Edito da Passigli Poesia (2023), è un libro che già dalla sobria copertina sceglie di far prevalere le nude parole, rinunciando ad immagini intriganti o ad evocative illustrazioni. Vincono le parole, da subito, per le immagini che soltanto loro sanno evocare. In epoca di tutto servito, dove onnipresenti schiere di schermi piatti prosciugano quotidianamente la nostra capacità immaginativa, è una scelta controcorrente, rivoluzionaria. E immediatamente, proprio negli estratti poetici ripresi nel frontespizio, mi imbatto in quella nostalgia celeste che subito mi porta alle stelle, a quel de-siderio che è, secondo il suggestivo etimo latino, avvertire la mancanza delle stelle.
il mondo e
vivo solo negli anfratti
meno esposti del reale:
sono una nostalgia celeste
ardentemente arresa al sul delirio.
Agile il volume, ma le poesie rimangono dense, precise, pesanti (nel senso più positivo: che pesano, le parole cioè sono pietre, incastrate al punto preciso, all’intersezione esatta nel mosaico del tutto che riluce). La vera poesia è sempre una vittoria delle parole, che riacquistano luce, sapore e colore, riscattandosi dall’uso noncurante, dalla sciatta disattenzione quotidiana che le depotenzia, le svilisce. Dall’abuso distratto che le stacca dal contatto fecondo con il cielo, confinandole artificiosamente a terra. A quest’uso tragicamente improprio, risponde soltanto, in Massimo, il silenzio dei cieli.
stesa come una metafora
(nel silenzio dei cieli)
ma insiste ancora
questa immagine:
non solo della terra.
Proprio perché le parole di Massimo sono pesanti (di un loro peso celeste, dunque), si staccano dalla Terra lievi, in dolce e irriverente violazione della legge di gravità. Perché le leggi fisiche vanno violate, talvolta. Lo specifica proprio lui, dando insieme il senso di questa consapevole violazione:
Sali
per quanto puoi nell’al di là della pietraia
e porta giù al rifugio una genziana:
osservala, come
osservassi te dal fiore
in uno specchio,
e poi traducila
Questa è l’esortazione: tu sali, inverti l’ordine apparente delle cose, comprendi che quanto più si riempie di significato il tuo parlare, tanto più diviene lieve, tanto più ti porta in sù. Ma la tensione verso l’alto (geografica, cosmica, spirituale) pervade come un filo rosso tutto il libretto di Massimo. E’ un richiamo forte, convincente perché omogeneo, costante. Ragionevole perché meditato, vissuto.
Il messaggio risuona con quanto questa stessa rubrica cerca di dimostrare, o meglio di evocare: ritornare al cielo, agli astri, è rendere possibile di nuovo un bene di vivere. Per questo ci importa, delle stelle. Semplice, dopotutto. Lui stesso lo confessa, pianamente: davvero niente di speciale.
mi è capitato di incontrare
il bene di vivere.
Non era niente di speciale, dico adesso
Un bel tramonto estivo, le cycas in terrazza
con le bipenni a far corona ai fusti,
l’aperitivo in talvole, gli amici
e l’anima con noi,
che ci assorbiva, astrale,
smaltandoci d’azzurro.
Ecco che l’apparente antinomia – questo paradossale peso leggero, quasi fosse una categoria pugilistica (ma si fa a botte solo con il senso comune, che ovatta tutto) – è ormai sciolta. Il libro di Massimo, come i testi di poesia vera, valgono assai più del loro peso, esondano dalla materialità delle loro stesse pagine. Rappresentano una proposta (credibile, ben lavorata) di accesso ad un regno celeste dove un’anima irriducibilmente astrale – finalmente ascoltata – torna quieta protagonista.
Di quel regno celeste, di questo nuovo cielo di cui spesso qui parliamo, Massimo è, al tempo medesimo, conoscitore ed appassionato cantore. Che nemmeno ha paura di pronunciare la parola Dio, quando (poeticamente) serve, quando intorno a questa misteriosa parola (depurata di innumerevoli malintesi, resa cioè nuovamente poetica), si condensa – in meravigliosa e ancora appena accennata sintesi – l’amicizia tra noi ed il cielo
Pensa: noi ci spostiamo a velocità incredibili
nel cosmo. Pensa il reale e perfino
l’impensabile, se è bello
Pensa l’errore
di tutte le ragioni
senza amore. Sentilo
dentro. Sentilo
di più.
Così l’evidenza della scienza moderna, di noi che ci spostiamo a velocità incredibili nel cosmo (precisa, perché il Sole sfreccia a più di 200 chilometri al secondo nel cosmo, e noi con lui) esonda dal mero dato quantitativo e diventa spunto di meraviglia. Punto sul quale far leva, per sbalzare via, da ora in poi, tutte le ragioni senza amore.
nei sospirosi sogni
della notte, dove
l’ora
l’una con l’altra
si cancella.
Fatto meraviglia,
mi muove una sorgiva
fluentissima e tranquilla
sotto un cielo felice
In sintesi, questi versi appaiono frammenti preziosi (appunto, di nobili cose), materiale di lavoro al fine di recuperare quel cielo felice che si mostra come la casa più audacemente familiare, più viva e bella, per tutto ciò che di veramente umano (ancora) vive in noi. Luci di prima sera che rimangono a rischiarare la notte, con quel modo delicato e gentile che è, da sempre, proprio della poesia.
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