“Public Engagement oppure deficit model?” – da un paio di mesi stiamo provando a riflettere su questa amletica domanda: se sia più conveniente coinvolgere il pubblico oppure lasciarsi andare a una lectio più o meno magistralis?
Amletica nel senso che, in molte situazioni, la scelta dell’uno o dell’altro approccio rappresenta ancora un crocevia serio, sia che si tratti di Istituzioni o di influencer. Crocevia nel senso che, in molte situazioni, non si tratta di un semplice bivio: fra nord e sud si possono scegliere tutte le direzioni intermedie. Intermedie nel senso che, in molte situazioni, la scelta può essere orientata maggiormente verso uno dei due poli, ma contemplare esplicitamente diverse contaminazioni che provengono dall’altro.
Certo, poi ci sono quei comunicatori e quelle comunicatrici che non si pongono il problema. Oppure che il problema se lo pongono, ma che – per interesse o semplicità – se la raccontano come preferiscono oppure si danno una risposta che ritengono soddisfacente – in qualche modo (qualsiasi cosa quest’ultima espressione possa significare).
La questione che introduciamo oggi è invece quella della misura del successo di una iniziativa rivolta, per esempio, a certo pubblico. Faremo un esempio che riguarda un gruppo di ragazzi e ragazze in età scolastica, diciamo fra gli 8 e 12 anni. Analoghe domande, naturalmente, devono essere avanzate qualsiasi sia il gruppo target (in un linguaggio che tende principalmente al PUS) o di riferimento (per usare una terminologia più partecipativa).
Consideriamo per esempio il caso di uno spettacolo teatrale, come il nostro Martina Tremenda nello spazio. àˆ PUS o PE? E perchè ci interessa discuterne? Non è indispensabile, a mio parere, però può essere utile, perchè la misura del successo di una iniziativa dipende, almeno in parte, dalla prospettiva che si assume fin dall’inizio.
Martina Tremenda nello spazio è una rappresentazione di circa un’ora: con attori (veri e digitali), musiche, canzoni. Nella tradizione del teatro per ragazzi/e prevede anche momenti di coinvolgimento: si battono i piedi, si danno risposte corali ecc. ecc. E, com’è tipico del teatro, si mettono in piazza e in gioco anche tanti sentimenti: la curiosità , la paura, l’attenzione, l’incertezza. Martina è una ragazzina che esplora l’universo in prima persona, sono sentimenti spontanei e naturali. Per certi versi, dunque, riconoscerete tratti caratterizzanti del Public Engagement.
Tuttavia i contenuti sono ben in mano ai ricercatori, che hanno partecipato alla sceneggiatura, al regista, agli attori. Niente è per caso, il copione è quello: non è teatro d’improvvisazione e la messa in scena non dipende dalle reazioni del pubblico. Questi sono tratti che caratterizzano il PUS.
Come vedete, si tratta insomma di una contaminazione di modelli. Conoscendo il dietro le quinte e sapendo come è costruita, a mio avviso sta più verso il PE che non verso il PUS, ma può essere che un’analisi esterna possa ribaltare il giudizio.
Il punto però è questo: fino a quando il PUS era l’unico modello di riferimento, il successo di una iniziativa poteva essere indicato banalmente dall’adesione (nel nostro caso: quanti spettacoli e quanti spettatori) e dalla misura del loro gradimento (alcuni metodi concettualmente semplici: un libro-diario all’uscita del teatro su cui lasciare commenti o un test proposto alla fine dello spettacolo o nei giorni successivi).
Con il Public Engagement, quello preso sul serio, cambia un po’ la prospettiva: il successo di una iniziativa è (giustamente, per me) misurato in base all’impatto che quella iniziativa ha sul pubblico di riferimento. L’impatto, dunque. Si intuisce che cosa sia, ma la sua natura non è esattamente definita – come del resto il Public Engagement, come faceva notare Riccardo, nel commento al mio pezzo di dicembre.
Assumiamo allora una prospettiva ingenua, quasi fisica: l’impatto è tale se produce un cambiamento dello stato di almeno uno dei corpi in gioco. Qui per stato intenderemo lo stato mentale, i pensieri, la percezione, le emozioni. Quindi: se vedere lo spettacolo ha cambiato, in qualche modo, lo stato mentale di coloro che vi hanno assistito, allora quello spettacolo avrà avuto un impatto. Anche negativo, è chiaro.
Potremo dire, insomma, che Martina Tremenda nello spazio ha un impatto se ha prodotto un cambiamento in chi l’ha visto. Dovremo anche definire che genere di cambiamento: una maggiore curiosità su temi scientifici? Un interesse per il teatro? Una passione per il topo Amleto, uno dei personaggi, che ha il dubbio – amletico, appunto – di essere un topo oppure un gatto? Naturalmente dovremo mantenere anche la misurazione introdotta prima (quanti spettacoli e quanti spettatori) e chiederci se l’impatto, posto che siamo stati in grado di misurarlo, sia stato e continui a essere commisurato alle forze prodigate per produrlo. Nel nostro caso, non ci siamo prefissati di misurare questi aspetti fin dall’inizio e probabilmente è stato un errore.
Gli indicatori quantitativi sono a posto, tutto sommato:
- lo spettacolo è stato ottimizzato per un pubblico di circa 200-250 ragazzini/e. E il numero medio di spettatori è vicino ai 220. Qui ci siamo;
- lo spettacolo è stato realizzato per essere trasportabile, ripetibile e a costi bassi. Il numero di repliche (oltre 20), pur non essendo elevatissimo, ci indica che questi obiettivi sono stati raggiunti;
- lo spettacolo è stato realizzato per non invecchiare. E in effetti abbiamo ancora diverse richieste (circa 10 l’anno) per replicarlo. A volte è possibile, a volte no.
Resta la domanda se abbia prodotto un impatto e di che genere. Se per esempio ci interessa l’impatto culturale, potremmo provare a capire se i ragazzi/e che hanno visto lo spettacolo abbiano poi letto un libro in più di quanto non facessero prima di tema astronomico. Questo comporta il confronto fra il nostro campione (coloro che hanno visto lo spettacolo) e una media statistica rilevante di riferimento.
Potremmo addirittura provare ad assecondare un comportamento del genere. Per esempio, potremmo pensare a un accordo con la biblioteca comunale più vicina al teatro o alla scuola: potremmo estrarre un elenco di libri per quella fascia di età : presenti in biblioteca. Poi questo elenco potrebbe essere consegnato al pubblico all’ingresso o all’uscita. A seguire potremmo fare rilevazioni circa l’effettivo aumento del prestito di quei volumi nelle settimane o nei mesi successivi.
D’altronde, prendere in prestito un libro non significa leggerlo, nè leggere un libro significa cambiare il proprio stato mentale. Potremmo allora chiedere un feedback ai giovani lettori, affinchè ci facciano sapere le loro valutazioni. Di indicatore in indicatore, dove ci fermiamo?
Di nuovo, la questione è complessa. Di sicuro è che quando si compie un atto di comunicazione con lo scopo di produrre un impatto, occorre mettere in campo molta consapevolezza, molta progettazione, molta collaborazione fra soggetti diversi, sia a livello personale che istituzionale, e una grande disponibilità di tempo. Occorre definire internamente quali sono i livelli quantitativi che vogliamo raggiungere, quali sono gli indicatori che vogliamo utilizzare (in altri termini: qual è lo scopo che ci si prefigge) e quale sia lo sforzo che intendiamo mettere in campo.
Nessuna ricetta, per carità . Solo un pensiero semplice, che è questo: in un mondo dove la propaganda è a livelli ormai incontrollabili e pervasivi, uno sforzo sul senso e sugli obiettivi del nostro agire sembra inevitabile. Altrimenti è una lotta impari con una società che si muove su valori che non sono determinati dal sentire dalle persone ma dalle necessità del mercato.
Alcuni link per esplorare:
- da tenere d’occhio: il sito di APEnet, il sito del network di università ed enti di ricerca italiani, che cercano di approfondire questi temi
- il sito di Scientix
- il blog di Scientix
Grazie caro Stefano,
condivido tutto nel tuo interessante articolo e soprattutto – se mi permetti – plaudo alla magistrale chiusa finale, che mette nel contesto corretto (a mio avviso) anche tutto lo sforzo divulgativo e di comunicazione: è necessario, infatti, sempre pensarlo “nella” società attuale e per far questo non dobbiamo paura di individuarne – assieme ad indubbi pregi – i caratteri spiccatamente neoliberisti e commerciali, per cui il mercato globale è soprattutto un assetto pubblicitario permanente e svilente (l’uomo ridotto alla dimensione di consumatore).
Caratteri amari, con i quali appunto dobbiamo fare i conti se non ci rinchiudiamo nei nostri modelli e nelle nostre strategie ma appunto ci prefiggiamo il compito (ambizioso ed eccitante, felicemente sproporzionato rispetto alle nostre forse) di agire sulla società stessa.
In questo modo l’azione è anche riflessione sullo stato delle cose; non più mormorazione depressiva (come spesso capita) ma limpida consapevolezza improntata all’azione. Mi dico, forse il messaggio di ogni bellezza che si riesce a portare ai ragazzi, è anche che il mondo è plastico e può cambiare, l’inevitabilità di alcune situazione è un pensiero ipnotico, fondamentalmente errato.
Un abbraccio,
Marco