Il PEST, ovvero Public Engagement in Science and Technology, nasce come tentativo di “riconcettualizzare” il rapporto fra scienza e pubblico, fra esperti e non esperti. Lo abbiamo visto nel numero di novembre di questa rubrica. Ma che cosa è esattamente il PEST? Vediamo come si fa largo nella comunità, almeno in Europa.
Già nel dicembre del 2001, prima della comparsa dell’acronimo PEST, la Commissione Europea pubblica il piano di azione Scienza e società: le parole società, dialogo, partecipazione sono citate rispettivamente 63, 21 e 15 volte. Il termine ascolto non è mai utilizzato, mentre aspettative è usato una sola volta: questo solo per suggerire che siamo ancora in “era PUS”. Il dialogo inizia a farsi strada, ma si ritiene ancora che il discorso debba ancora essere significativamente nelle mani di “coloro che sanno”.
Nel 2002 viene lanciato Science and society nel VI Framework Programme che diviene poi Science in Society nel VII (2007) e, in Horizon 2020, approda a un più significativo Science with and for Society. Tra il 2007 e il 2020 passa molta acqua sotto i ponti, come per esempio l’edizione speciale 401 dell’Eurobarometro, un rilevamento a campione su scala europea, dedicato proprio al rapporto fra scienza e società, che si intitola significativamente Responsible Research and Innovation (2013). L’Eurobarometro rileva che, sulle tematiche scientifiche, oltre il 55% dei cittadini europei ritiene che il dialogo pubblico sia necessario. Solo il 6% pensa che non sia necessario essere informati né, a maggior ragione, prendere parte ad alcun genere di dibattito.
Negli anni successivi, complice la crisi climatica e il movimento che ne consegue, i termini dialogo e ricerca responsabile diverranno sempre più cruciali. E il coinvolgimento sempre più richiesto.
Ma il vero problema è: in che modo i cittadini sono veramente engaged, coinvolti? Quali sono i metodi delle istituzioni per coinvolgerli? E in che cosa sono coinvolti?
Facciamo un paio di esempi estremi.
L’esempio estremo di PUS, come abbiamo visto, è la classica conferenza di uno scienziato, a cui il pubblico assiste in silenzio o si esprime al più con l’applauso. In Italia ci sono diversi casi televisivi con questo formato, in cui addirittura lo scienziato utilizza le classiche slide con cui accompagna il proprio discorso. È quello che in gergo si chiama un talk. Insomma, una conferenza.
Ecco invece un esempio all’altro termine dello spettro: un public engagement estremo: si chiama consensus conference ed è un formato danese, nato negli anni ’80 secondo wikipedia(1)Le consensus conference posso riferirsi ad altri due ambiti: li trovate nella pagina di disambigua – NdR. A me pare un modello ateniese, nato oltre 2500 anni fa. Sia come sia, una ricerca dell’OECD del 2021 mostra chiaramente che ha avuto un forte incremento a partire dal 2010.
Pur nella grande varietà che l’OECD raccoglie, di base si tratta di assemblee a cui aderiscono cittadini e cittadine in modo volontario. Dopo una prima adesione, si cerca di selezionare le persone partecipanti in modo che l’assemblea rifletta la comunità. Per esempio, se nella popolazione di cui si vuole raccogliere il parere c’è soltanto il 7% di laureati/e, anche nell’assemblea selezionata dovrà esserci non più del 7% di laureati/e, con la loro corretta distribuzione in termini di genere.
Ai candidati viene fornito del materiale informativo, molto tempo per studiare, confrontarsi, cercare le proprie fonti, farsi un’idea, riunirsi, discutere. E alla fine di questo periodo, si organizza una vera e propria assemblea in cui si ritrovano le varie parti per discutere. Gli incontri possono durare diversi giorni, al termine dei quali si stilerà un documento, una dichiarazione, delle raccomandazioni, che riflettono il parere dell’assemblea e, quindi, della comunità. In questo esempio, emerge perfettamente il significato politico del public engagement, completamente aderente al funzionamento di una democrazia rappresentativa – con i pregi e i limiti che conosciamo ormai bene.
Casi estremi, dunque. Voglio però concludere con un paio di esempi meno ovvi: i TeD talks e il teatro.
Come si situano nello spettro che parte dal PUS e finisce al PE?
A mio avviso i TeD talks non sono altro che la riproposizione in chiave aggiornata dell’approccio classico: in genere non si usano slide, ma si lavora sulla struttura del discorso, sullo storytelling. È un metodo studiato per coinvolgere il pubblico dal punto di vista emotivo: si raccontano le proprie vicende, ci si mette in gioco con ironia o con passione o addirittura rivelando particolari molto personali. Oppure si racconta la storia di qualcuno, che diviene poi testimone di un cambiamento o addirittura di una crisi e della sua risoluzione. Lo storytelling è ormai una tecnica nota, ma la sostanza non cambia un granché: uno parla, gli altri ascoltano. Il coinvolgimento, come detto, è di tipo emozionale e non prevede feedback: è un coinvolgimento passivo, non è un dialogo.
E il teatro? A prima vista sembrerebbe simile al caso dei TeD: una persona, nel caso di un monologo, o un gruppo di persone che mettono in scena una storia, mentre il pubblico ascolta passivamente. Il coinvolgimento è prevalentemente emotivo, anche grazie all’utilizzo di una molteplicità di linguaggi che, di solito, è negata a una TeD talk.
Secondo il mio punto di vista, però, la rappresentazione teatrale ha una genesi molto più complessa e un significato completamente diverso. Inoltre prevede anche vincoli coreografici e scenografici: esiste una trama fittissima di connessioni fra le varie parti che compongono l’opera (per esempio le luci e la posizione degli attori sul palco, la musica e i movimenti o la tensione narrativa inscenata). Inoltre l’opera teatrale nasce da una volontà completamente diversa di quella di un TeD. In questo ultimo caso, c’è sempre il desiderio di comunicare qualcosa, mentre nel teatro lo scopo è rappresentare qualcosa. Secondo me, insomma, nel teatro il dialogo fra autori e pubblico non avviene tanto durante la rappresentazione, ma è già avvenuto ben prima.
Ed è da quel dialogo che l’opera teatrale nasce. Poi, è vero, nella comunità scientifica si trova anche chi pensa semplicemente che con il teatro si comunichino meglio le informazioni o i contenuti – facendo sprofondare il teatro stesso nell’antico vizio del PUS.
Per approfondire
- European Commission (2001) Science and Society Action Plan. Brussels, Belgium: European Commission
- Science and society: specific programme for research, technological development and demonstration: “Structuring the European Research Area” under the Sixth Framework Programme 2002-2006
- Responsible Research and Innovation (RRI), Science and Technology, Special Eurobarometer 401
- White Paper on Citizen Science, SOCIENTIZE, contratto Commissione Europea RI 312902
- OECD (2021-12-14). “Eight ways to institutionalise deliberative democracy”. OECD Public Governance Policy Papers. Paris. doi:10.1787/4fcf1da5-en
Note
↑1 | Le consensus conference posso riferirsi ad altri due ambiti: li trovate nella pagina di disambigua – NdR |
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L’articolo mi lascia una perplessità: inizia discutendo i modelli di comunicazione senza dare una possibile (seppur non esaustiva) definizione di PE, e poi si passa a descrivere degli strumenti, delle tecniche di comunicazione, evidenziando i limiti di ted talk ed esposizioni top-down. Avrei gradito leggere il punto di vista dell’autore/autrice.
I limiti sono in parte superabili impostando lo strumento comunicativo nel modo migliore, aprendo all’ascolto e innescando il dialogo.
Una tecnica può andare oltre il modello che l’ha creata.
Fermo restando che una tecnica nata nell’ambito del PE ha sicuramente margini di miglioramento e sviluppo più grandi.
Ciao Riccardo, tocchi un tema cruciale e una ferita aperta. Il PE è piuttosto ambiguo nella sua interpretazione proprio perché manca, a mio avviso, una definizione chiara. Questo è il motivo per cui ho preferito tratteggiare il modo con cui questo concetto è stato introdotto e come è cambiato nel tempo, piuttosto che fare un discorso argomentativo a partire dalla definizione.
E’ altrettanto vero che una tecnica può andare oltre il modello che l’ha creata: ci sono tanti modi di fare lezioni e conferenze che prevedono la partecipazione del pubblico a vari livelli. In più in generale, nessuno ha la pretesa che tutti gli atti di comunicazione debbano essere PE.
Il punto fondamentale, per me, è che per quanto manchi una definizione chiara e condivisa, in questo momento ci sono tante attività che amano pensare loro stesse come PE, ma che di base sono ispirate a una modalità diversa, molto più top-down di quel che si pensi.
Detto altrimenti, personalmente io faccio un sacco di conferenze nel modo più dialogante possibile: chiedo che le persone mi interrompano, che facciano domande, che argomentino. Insomma, cerco di costruire un dialogo. Però non riesco a considerarlo PE: si tratta di una contaminazione, c’è certamente ascolto e rispetto, ma resta il fatto che mi presento come l’esperto di quell’argomento e il pubblico come coloro che vengono per ascoltare. Il formato resta questo.
Esistono dei formati diversi, in cui l’argomento viene deciso dai partecipanti (si chiamano “unconference”) e questo è sicuramente un cambiamento sostanziale.
E’ una questione complicata, almeno per me