Lo spazio tra le pagine

Istruzioni di volo per stelle

Esaminiamo, sotto l'occhio dell'astronomo, i versi del vincitore del Premio Nazionale Frascati Poesia “Antonio Seccareccia” 2024

Le indagini compiute fino a qui, scandagliando epoche e stili, ce lo confermano appieno. Non c’è poeta che non si occupi del cosmo. Non che i poeti vantino una tensione astronomica particolare, sia chiaro. Il discorso è diverso: poiché il cosmo è semplicemente ciò in cui viviamo, ciò in cui siamo immersi (mentre noi ci ostiniamo chissà perché, a pensarlo appena sopra), questa è una attitudine inevitabile.
Attitudine che si può declinare in molti modi. Dalla paura, dal terrore puro della vastità degli spazi (lo abbiamo ben visto, con Giovanni Pascoli) o degli oggetti celesti, ad un senso di familiarità e quasi un riverbero di casa (mi viene spesso in mente quel verso di Dolce Luna, antica canzone di Fabrizio De André, la luce delle stelle chiare, come un rifugio capovolto).
Gian Mario Villalta è il vincitore del Premio Nazionale Frascati Poesia “Antonio Seccareccia” 2024. Premio autorevole, giunto alla sessantaquattresima edizione. Sebbene la sua raccolta, Dove sono gli anni (edita da Garzanti nel 2022), non esponga dichiarate inclinazioni verso il cosmo, questo non implica – per quanto si diceva in apertura – che non sia il cosmo stesso ad entrare nei suoi versi, quasi di prepotenza, quasi per una celeste e felicissima inevitabilità.

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“Insisti, tieni le stelle in volo” Elaborazione dell’Autore attraverso Copilot Designer di Microsoft

Il cielo esiste, anche quando non se ne parla direttamente. Ed è anche, di suo, troppo pervasivo perché le cose possano essere semplicemente poste in modo diverso. Per quello diviene cruciale, realmente definitiva (nel senso che definisce, e che è perentoria) l’attitudine con la quale si vive questa pervasività. Sfogliando il libro di Gian Mario, a pagina settantatré mi imbatto in questa luminosa composizione, dove le cose si fanno terribilmente serie (e belle), fin dai primi versi.

Perché non sapevi afferrare
cadevano stelle.
Nessun mare dove vederle
fingere di affondare.
Nessun davanzale
dove appoggiare i bicchieri.
La mano che ti voleva salvare
sanguinava ma non ricordi
che sei stato tu, tu mordevi
in quelle notti è vero ululavi nella mente
al branco dove eri stato lupo
alla luna non hai mai saputo dir altro
(spartito un fuoco senza fine
da un’infelicità buona,
colma d’aspettative).

Siamo d’accordo, bisogna procedere con cautela. E’ sempre rischioso commentare una poesia, si rischia di depotenziarla, di accontentarsi di un discorso di parole filate: che è un modo insidioso per la mente, per annacquare la meraviglia. La meraviglia che vive nella perentoria musicalità del verso, innanzitutto

Perché non sapevi afferrare / cadevano stelle.

Mi azzardo, comunque, a scriverne qualcosa. Il cielo collassa a terra, annulla la tensione verticale, quando non sai afferrare. Quando non approcci correttamente le cose, quando non sai desiderarle davvero, le stelle cadono. Non possono fare altro.
Mi pare bello pensare che, in qualche modo, siamo noi stessi a tenere le stelle in volo. Le stelle, quei segnali vivi dell’immensità dello spazio (luci meticolose / nell’insegnarti la notte le definisce sempre De André in un brano di struggente, mistica dolcezza, Il ritorno di Giuseppe). Allora quando io stesso non ci credo, non ci credo più, quando io stesso sento il mio cielo farsi piccolo, restringersi attorno a me, quando nego a me stesso la spaziosità di tutto – la nego nel vivere pratico, non nella teoria – le stelle, avviluppate e quasi soffocate in questo spazio piccolo, non possono che cadere. Il poeta è il primo ad avvertirlo, a segnalarlo.
Le stelle, peraltro, conoscono diversi modi di precipitare. Quelle cosiddette cadenti (che poi, stelle non sono, direbbe pedantemente lo scienziato in me), hanno un modo aggraziato di farlo, perché connesso al nostro desiderio. Quelle che tiriamo giù per semplice difetto di speranza, invece, cadono male.
Il problema di quando le stelle cadono male – lo sappiamo tutti – è che anche le cose qui in Terra si fanno tenui, inconsistenti, inaffidabili. Se il cielo e la terra sono connessi, non potrebbe essere altrimenti, non stupisce più di tanto. Così se non esiste più nessun mare / dove vederle fingere di affondare, non esiste più nessuno spazio di gioco, sparisce la possibilità di sorridere nel mondo e si eclissa quello spazio necessario di respiro, dove le cose sono più vive e meno serie di quanto, sempre, sembrano alla parte pe(n)sante in noi. Insomma, quello che Eckhart Tolle, nel libro Un nuovo mondo, chiama il ruolo universale dell’adulto, è davvero la cosa più lontana dalla poesia (e dalle stelle) che si possa immaginare. Nelle sue parole,

Quando lo interpretate, prendete voi stessi e la vita molto seriamente. La spontaneità, la spensieratezza e la gioia non fanno parte di questo ruolo.

Ecco dunque che quando scivoliamo in quel ruolo (lontani tanto dallo stupore dei bambini quanto dall’essere adulti veramente, che non è mai un ruolo) le stelle non possono fare a meno di cadere.
Così che con il cielo, non si parla più. E per un meccanismo mentale, questo si allarga al passato, perché il tempo è nella mente, il tempo non esiste. Così alla luna non hai mai parlato perché quel che accade ora diviene adesso l’unica realtà.
Ma proprio in questa infelicità buona, colma di aspettative vado la via di uscita possibile. Strano che lo sia, l’infelicità. Ma è una infelicità di un tipo particolare, appunto: è buona (il poeta non mette mai parole a caso, è sempre tutto al suo posto e sempre tutto necessario). Buona è infatti quella infelicità che viene lavorata, accettata, accolta. Verso cui non si prova più a resistere. Una cosa buona del resto, è una cosa che ispira curiosità, una cosa che si desidera esplorare.
Sempre Tolle ci avverte, poco più avanti, che se c’è infelicità bisogna per prima cosa riconoscere che c’è (…) Guardare in faccia i fatti dà sempre potere. Allora l’infelicità può essere buona perché può essere un semplice, temporaneo inviluppo di qualcosa di luminoso che ancora non si vede, di qualcosa che deve venire ma che per ora – forse solo per un altro po’ –  si fa attendere.
Di qualcosa, cioè, che potrà mantenere le stelle in volo.

E noi, con loro.

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Scritto da

Marco Castellani Marco Castellani

Ricercatore presso l'Osservatorio Astronomico di Roma. Si interessa di popolazioni stellari ed è nel team scientifico del satellite GAIA di ESA. Divulgatore e scrittore per passione, gestisce da anni il blog divulgativo Sturdust.blog (già  GruppoLocale.it) e coordina il progetto Altrascienza.it.

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