
Margaux, di cosa ti occupi nel tuo progetto di dottorato?
Lavoro nel campo della meccanica celeste, in particolare sul problema degli n corpi, cioè lo studio del movimento di più corpi che si attraggono reciprocamente attraverso la gravità.
È un problema classico, noto fin dai tempi di Newton, ma che presenta ancora molte sfide aperte e numerose applicazioni. In campo spaziale, dalla progettazione delle orbite dei satelliti e delle missioni interplanetarie, fino all’identificazione dei pianeti extrasolari. E sorprendentemente, anche su scale molto diverse: nell’infinitamente piccolo, anche il comportamento degli atomi può essere descritto come un problema a n corpi.
Lavoro presso l’Università di Torino, sotto la supervisione di Susanna Terracini, all’interno di un gruppo di ricerca che affronta questi temi con un approccio molto moderno. Invece di studiare direttamente le equazioni differenziali, utilizziamo metodi variazionali, che permettono di cercare orbite periodiche e simmetriche in modo più astratto ma molto potente.
Vieni dalla matematica teorica, ma oggi lavori su un progetto applicato e in un contesto dove i matematici — e in particolare le matematiche — sono una minoranza. Come vivi questa doppia transizione?
È una delle cose più belle del mio percorso. Vengo dalla matematica teorica, ma il dottorato SST mi ha permesso di lavorare su qualcosa che ha implicazioni reali, con applicazioni in campo spaziale.
Il mio è un progetto molto astratto, ma con elementi pratici come la programmazione, e può avere ricadute anche fuori dall’ambito spaziale, per esempio nello studio dei potenziali molecolari. Questo dimostra quanto la matematica, anche se astratta, sia trasversale e possa trovare applicazioni inaspettate.
A volte è difficile far emergere il valore della matematica teorica in un ambiente molto orientato all’ingegneria e alla fisica, ma credo che sia proprio questa diversità di approcci a rendere il dottorato così ricco. Percorsi più “puri” come il mio arricchiscono l’ecosistema scientifico, offrono nuove prospettive e, spesso, anche nuovi modi di affrontare problemi complessi.
Allo stesso tempo, so di trovarmi in una posizione minoritaria. Nel dottorato SST c’è una sola borsa all’anno per la matematica, e attualmente, considerando i tre cicli di dottorato attivi, le tre posizioni sono ricoperte da tre donne.

Quello delle pari opportunità nella scienza è un altro tema che ti sta particolarmente a cuore e che hai affrontato nel tuo percorso.
Sì, è un tema che sento molto. Anche oggi, nel 2025, esistono ancora differenze di genere evidenti in ambito scientifico. All’inizio del percorso universitario i numeri sono più o meno bilanciati tra uomini e donne, ma man mano che si sale verso i livelli più alti della carriera — come il dottorato, il post-doc, i ruoli accademici — le donne diventano sempre meno.
Nel mio ambito, la matematica teorica, questa tendenza è ancora più marcata. Ed è un peccato, perché spesso si tratta non di mancanza di capacità, ma di mancanza di rappresentazione. Non ci sono abbastanza figure femminili visibili in ruoli di rilievo. Questo può far sentire le giovani donne come se non appartenessero a quel mondo.
Per questo credo moltissimo nel potere dell’esempio. Nel progetto Scribunt dell’Università di Trento ho scritto le biografie di Susanna Terracini e Angioletta Coradini per l’Enciclopedia delle Donne. Volevo mostrare che anche le grandi scienziate sono state persone reali, con percorsi pieni di ostacoli, incertezze, scelte difficili.
Quando raccontiamo queste storie nelle scuole, succede qualcosa di bello: le ragazze si riconoscono. Capiscono che non devono essere perfette, né avere tutto chiaro da subito. Che si può fare ricerca anche se a volte si ha paura, anche se si è timide, anche se si viene da percorsi non lineari.
E questo, per me, è l’aspetto più rivoluzionario della divulgazione scientifica: umanizzare la scienza, farla uscire dall’immagine dell’élite di geni infallibili, e renderla uno spazio dove tutti — e tutte — possono immaginare il proprio posto.
Il Dottorato SST prevede un periodo obbligatorio all’estero. Tu come lo hai vissuto e cosa pensi rappresenti per un dottorando?
Sono stata per sei mesi in Scozia, all’Università di Strathclyde di Glasgow, nel dipartimento di ingegneria aerospaziale meccanica. È stata un’esperienza fortissima, sotto tutti i punti di vista.
Lavoravo in un laboratorio molto diverso da quello torinese, con più attenzione alla progettazione e alla parte sperimentale. È stato un modo per scoprire un altro paese, affrontare difficoltà logistiche, trovare una nuova casa, e imparare una diversa flessibilità mentale.
Ovviamente non è stato facile. Spostarsi significa ricominciare da zero: cercare alloggio, adattarsi a contesti nuovi, cambiare abitudini, vivere momenti di forte difficoltà, come l’esperienza di rompersi una gamba in un paese lontano.
Ma è anche un’esperienza che ti cambia profondamente, ti fa crescere sia come ricercatrice sia come persona. Nel mio caso, mi ha anche dato l’opportunità di incontrare il mio attuale compagno.
Anche nei racconti dei colleghi che sono andati in altri paesi – per esempio in America, in piena ondata di proteste – ho sempre visto che le difficoltà si trasformano in opportunità di crescita.
Tu sei al tuo terzo anno, stai per concludere il tuo percorso di Dottorato, dove hai per altro ricoperto il ruolo di rappresentante degli studenti nel collegio di Dottorato, quindi con una visione privilegiata. Cosa ha dato -a te e ai tuoi colleghi- finora, questo dottorato? E cosa vedi nel tuo futuro?
Mi ha dato strumenti nuovi, come la programmazione, ma anche la possibilità di mischiare i linguaggi tra discipline diverse.
Mi ha fatto capire quanto sia importante non essere rigidi, non sentirsi “fuori posto” se si è un po’ a cavallo tra due mondi, come nel mio caso tra fisica e matematica.
E poi mi ha dato la possibilità di entrare in contatto con persone molto diverse: biologi, fisici, giuristi, ingegneri, italiani e stranieri. Un aspetto che ho apprezzato tantissimo è che, essendo un dottorato multidisciplinare, non c’è una forte competizione interna, come spesso accade nei contesti più omogenei.
Questo pluralismo è una ricchezza enorme e vale per tutti i dottorandi.
Quanto al futuro, vorrei provare a fare ricerca accademica, almeno per un anno. È qualcosa a cui tengo molto, e che voglio esplorare finché ne ho la possibilità. Se non dovesse funzionare, non lo vedrei come un fallimento: la ricerca può vivere anche fuori dall’università. Ho già avuto l’opportunità di incontrare aziende, confrontarmi e rendermi conto che è possibile fare ricerca anche in ambito aziendale.

Come hai scelto di studiare matematica e che consigli daresti a chi si affaccia all’università o alla ricerca?
In realtà ero inizialmente orientata verso ingegneria, probabilmente per seguire le impronte di famiglia. Poi ho scoperto, grazie ai miei genitori, che esisteva un corso di laurea in matematica vera e propria — cosa che ignoravo totalmente da studentessa di liceo — e mi ci sono buttata senza esitazioni.
Per me la matematica è una forma di filosofia, legata alla logica e al pensiero profondo. Non è solo numeri: è un modo per interrogarsi sul mondo, per costruire strumenti con cui comprendere ciò che ci circonda.
A chi inizia ora e cerca la propria strada direi: frequentate, anche se non capite tutto. Andate a lezione, entrate nelle aule universitarie, sedetevi e ascoltate. Anche se all’inizio vi sembrerà di non capire nulla, va bene così. L’ambiente universitario si impara solo vivendolo.
E poi: seguite le vostre passioni, non abbiate paura di cercare, di buttarvi, di fare domande, di insistere con garbo. Le cose più belle, spesso, nascono per caso — ma servono coraggio e pazienza per riconoscerle quando arrivano.
Che ruolo ha – o dovrebbe avere-, secondo te, la scienza nella società?
Per me la scienza è un faro: ci aiuta a capire, a orientarci per costruire il futuro. Deve indicarci la direzione ma permetterci anche di fare dei detour, delle svolte impreviste.
Non dobbiamo mai dimenticare che dietro ogni scoperta ci sono esseri umani, con le loro emozioni e i loro limiti. La scienza non può spiegare tutto: non i sentimenti, non le relazioni. E va bene così. Perché essere scienziati non vuol dire essere computer. Vuol dire essere curiosi, coraggiosi, e anche un po’ fragili.



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