Aggiornato il 28 Novembre 2024
e le Pleiadi a mezzo della notte;
anche giovinezza già dilegua,
e ora nel mio letto resto sola.
Per me è fonte di stupore osservare come la poesia più antica e quella moderna si ricolleghino e quasi risuonino tra loro, di una consonanza – direi quasi una collimazione – così precisa ed esatta: insospettabile, a priori. Come se i moderni riprendessero il filo di un discorso ancestrale e importante, forse interrotto, o rimandato appena per un poco. Ad esempio, leggendo il frammento di Saffo con il quale si apre questo articolo (come il successivo, qui proposti nella traduzione di Salvatore Quasimodo), mi torna in mente subito Giuseppe Ungaretti, poeta del quale ci siamo occupati in questa rubrica proprio lo scorso mese.
Molti secoli di distanza temporale, molti elementi di affinità stilistica. Su tutti, il verso breve, che punta all’essenziale. Orpelli e abbellimenti, scartati per lasciar trasparire questa tensione – profonda e suggestiva – del puro comunicare. E per quanto qui più ci riguarda, una visione modernissima del cielo, tutt’altro che statico: in questa perenne mutazione, di un universo irresistibilmente segnato dal tempo (sia pure nella ciclicità di alcuni eventi, come il tramonto sull’orizzonte della Luna e delle stelle), la poetessa avverte più acuto il dileguarsi delle stagioni, ne trova traccia sul suo stesso corpo. E il morso atroce della solitudine, non è edulcorato o abbellito da nessun infingimento stilistico. Nel mio letto resto sola è appunto la chiusa lapidaria di questo frammento, che parte da Luna e stelle e cade – a velocità siderale, potremmo dire – sul soggetto che le guarda, improntata a una sincerità disarmante e per questo, irresistibile.
Di Saffo, peraltro, non si hanno molte notizie. Pare fosse originaria di Ereros, città di Lesbo nell’Egeo. Di famiglia aristocratica, nacque circa nel 630 a.C. e morì intorno al 570 a.C. Gli studiosi della biblioteca di Alessandria suddivisero la sua opera in otto o forse nove libri, organizzati secondo criteri stilistici. Il primo, per esempio, pare comprendesse più di 1300 versi. Purtroppo di questa ingente produzione non ci rimangono che pochi frammenti (e probabilmente non sapremo mai quel che ci siamo persi: beati gli studiosi di Alessandria, li invidio parecchio). Intatto è comunque giunto a noi l’inno ad Afrodite, pervenutoci grazie alla citazione di Dionigi di Alicarnasso. Più che sufficiente per farci comprendere la profondità poetica di questa ragazza.
La sua poesia, al pari di ogni vera testimonianza artistica, non si sfibra con il tempo, non si opacizza. I sui versi si fanno docilmente strada nel nostro cuore, con una precisione di bersaglio che attraversa i millenni senza accusare stanchezza. Ma non si pensi a una scoperta tardiva: fu infatti apprezzata anche dai contemporanei. La tradizione ci dice che Solone, famoso politico giurista e poeta ateniese, avendo udito in vecchiaia un suo componimento, disse che a quel punto desiderava solo due cose, ovvero impararlo a memoria e morire: esagerazione retorica, certo, perchè la vera poesia fa sempre venire voglia di vivere. Ma ci siamo capiti, il nostro aveva il gusto per l’enfasi.
Nel frammento riportato in apertura, in particolare, stupisce la precisione con cui il dato astronomico viene integrato nel discorso emozionale, ricavandone una tessitura armonica pienamente coerente e che si impone prepotentemente alla memoria. Ciò che colpisce in questi versi è una indicazione per il presente, perchè la poesia è dannatamente utile e necessaria proprio per le indicazioni che ci fornisce per la nostra vita. E la vita è adesso, come saggiamente avverte un artista nostro contemporaneo.
Si tratta di questo, ultimamente: di una ripresa di contatto con il cielo, come partecipante attivo ai moti del cuore umano. Banale dire che, di anno in anno, nella nostra vita ordinaria le occasioni per guardare il cielo, per ammirare la Luna o le Pleiadi, sono sempre minori. Possiamo ammetterlo: le occasioni di vedere il cielo stellato nella sua magnificenza sono ormai rarissime. Nei moderni centri urbani, il cielo stellato è semplicemente sparito, nessuno ne può fare esperienza. E se non è oggetto di esperienza, in pratica è come se non esistesse. Con poche eccezioni, dunque, il cielo stellato non esiste più, non è qualcosa che viviamo. Ogni notte viene allestito lassù un meraviglioso spettacolo, ma noi ce lo perdiamo quasi sempre. Come giustamente scrive Anna Wolter, nell’articolo sui sessanta anni di ESO, oggi, che il cielo è sempre più affollato di luce e di oggetti artificiali messi in orbita per scopi diversi, è fondamentale curare il buio del cielo ottico e il silenzio del cielo radio, per consentirci di guardare un po’ al di là del nostro ristretto orizzonte.
Il punto infatti è questo, che si può anche vivere senza ammirare lo spettacolo magnifico del cielo stellato, apparentemente si può. Ma il prezzo da pagare è molto alto, perchè il nostro orizzonte si restringe inesorabilmente. Perdiamo l’aggancio con la consapevolezza di essere parte di un universo immenso, che partecipa al nostro destino attraverso i corpi celesti che vediamo, con i quali dunque stabiliamo un contatto emozionale: come la Luna, appunto, o l’ammasso delle Pleiadi. Invece è urgente che rientrino nel nostro immaginario: anzi di più, divenire oggetto di storie, di racconto (piace ricordare adesso proprio il motto del Gruppo Storie in INAF, derivato dalla poetessa Muriel Rukeyser, l’universo è fatto di storie non di atomi).
Ancora Saffo ce lo suggerisce,
nascondono l’immagine lucente,
quando piena più risplende, bianca
sopra la terra.
In questa meraviglia del cielo c’è il messaggio senza tempo della vera poesia, che è la cordiale e costante ripresa del rapporto con il tutto, e dunque con il firmamento. Non tanto e non solo – oserei dire – per comprendere come funziona (impresa di per sè già straordinariamente interessante), ma per ricevere la sua gratuita bellezza come un dono, appunto, come la possibilità di vivere in modo più consapevole.
In questo tempo di festività , non sarà vano riflettere sul fatto che la nascita di Gesù di Nazareth – un evento cardine della cultura occidentale, comunque lo si voglia guardare – sia accompagnato nella tradizione da un altro segno dei cieli, la comparsa di una stella cometa. Qui si vuole notare appena questo, come cielo e terra per il cuore dell’uomo, debbano procedere uniti e concordi. Debbano far parte di una medesima storia.
Oso dirlo, abbiamo perso il contatto amichevole con il cielo, assediati da tanti consigli per gli acquisti e anche – purtroppo capita – da racconti superficiali e menzogneri della scienza del cosmo, che ce la fa sentire lontana, inessenziale (mentre è tutto fuori che questo). Ma possiamo recuperarlo. La poesia può fare tanto, per aiutarci.
Perchè quanto più siamo coscienti dell’ambiente in cui viviamo (in senso appunto largo, cosmico) tanto più siamo radicati al suolo e i nostri pensieri, le nostre azioni, possono incidere nel tempo. Questo, tanto l’indagine appassionata dell’uomo quanto quella del cielo, lo proclamano concordemente fin dall’inizio dei tempi.
A noi ricevere il messaggio, ora e sempre.
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